Arcelor Mittal: in fuga da Taranto (e non solo)

[di Donatella Liuzzi per il CDCA] Dal settore automobilistico a quello edile, dagli elettrodomestici all’imballaggio, Arcelor Mittal si configura come gruppo leader siderurgico minerario e globale presente in 60 paesi e con siti industriali in 18 nazioni. In alcuni di questi però, la sua situazione è compromessa da un lungo elenco di processi e violazioni in campo ambientale.

In questi giorni il nome di ArcelorMittal è stato al centro del dibattito politico italiano: ieri ha depositato in Tribunale l’atto di citazione per il recesso del contratto di affitto – e che nel 2021 ne avrebbe determinato l’acquisto – dell’Ilva di Taranto. 

Il motivo? La richiesta da parte dell’azienda di vedersi riconosciuto lo scudo penale (immunità necessaria per non incorrere in cause legali nel periodo necessario per il risanamento ambientale).

Richiesta che può sembrare assurda solo a chi non conosca il curriculum del colosso siderurgico, che al momento sta affrontando una serie di processi penali relativi all’operato non proprio conforme alle regole e che negli anno lo ha visto protagonista di illeciti ambientali.

La lista dei contenziosi è lunga e lega il destino di Taranto a quello di altri paesi tutto il mondo: si parte dal Canada, dove ArcelorMittal è sotto processo con ben 39 capi d’imputazione. La multinazionale è accusata di aver inquinato le acque rilasciando le sostanze nocive nella miniera del Fermont, in Quebec, tra il 2011 e il 2013; inoltre, Arcelor Mittal aveva richiesto di poter ampliare l’uso della miniera, scontrandosi con la commissione ambientale che ha chiesto più rassicurazione proprio sul rispetto delle norme ambientali, visti i precedenti. 

L’atteggiamento dell’azienda non è sicuramente passivo: su 39 capi d’accusa, 29 sono stati contestati: la risposta del tribunale non si è fatta attendere, respingendo la richiesta e accusando i vertici di aver rilasciato dichiarazioni false.

Dal Quebec passiamo negli Stati Uniti, dove grazie un documento dell’EPA – l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente – attesta che l’ispezione all’impianto di Bums Harbor in Indiana ha accertato sversamenti di cianuro e ammoniaca nel fiume Little Calumet, con conseguente moria di pesci.

In Sud Africa è attivo un processo per inquinamento e danni alla popolazione Sebokeng, Sharpeville e Boipatong: il Mail&Guardian, che si dedica molto spesso al problema dell’inquinamento della multinazionale, la definisce come la più grande inquinatrice di aria del Sud Africa. Nero su bianco anche tutte le strategie legali che la compagnia adotta per evitare le condanne, continuando a devastare ogni ambiente in cui si insedii.

In Europa la situazione non cambia: in Francia la multinazionale è sotto processo per l’inquinamento della Mosella, vicino a Thionville. Dallo stabilimento sarebbe stato sversato acido cloridrico direttamente nelle acque del fiume. Si aggiungono, alle accuse precedenti, anche la gestione irregolare di rifiuti oltre al funzionamento non autorizzato di un impianto.

In Ucraina, contro il colosso industriale si è schierato il presidente Volodymyr Zelensky che li ha accusati di non tenere fede agli impegni presi di migliorare la situazione ambientale nella regione di Dnipropetrovsk.

In Bosnia Erzegovina ArcelorMittal possiede l’impianto Zenica, un’acciaieria la cui compagnia ha promesso di “riportare ai fasti dell’anteguerra”. A quale prezzo? Sempre quello ambientale e occupazionale, una situazione che si ricollega perfettamente con l’ultimo pasticcio di ArcelorMittal, quello che ci riguarda da vicino.

Un anno fa la compagnia anglo indiana si è presentata alla gara per acquistare l’ILVA di Taranto e, nonostante la sua reputazione, l’offerta è stata giudicata la migliore. Le promesse di mettere in sicurezza l’impianto di Taranto e i parchi dove sono depositati i minerali di ferro sono rimaste sospese nell’aria, così come le polveri che nei giorni di vento si abbattono sulla città e come la sicurezza dell’impianto. A ricordarcelo le sette vittime impiegate nello stabilimento dal 2012 al 2018 e le 11.550 tra il 2004 e il 2010, morte nelle zone limitrofe alla fabbrica, la metà per malattie cardiovascolari o respiratorie. E ad agosto del 2019, le emissioni di polveri sottili fuoriuscite dai camini dell’ex Ilva hanno toccato punte molto, troppo alte. 

Se una riflessione più o meno approfondita sul colosso siderurgico – soprattutto per quanto riguarda le violazioni ambientali – avrebbe forse impedito l’ennesimo smacco a Taranto, non lo sapremo mai. Per il momento, con il deposito della recessione del contratto in tribunale, ArcelorMittal volta le spalle all’Italia e Taranto, che probabilmente vedrà cambiare il nome della fabbrica che uccide e non la rotta verso un futuro diverso per la città e per i tarantini, ancora costretti a scegliere se lavorare o morire.
E chissà se Arcelor Mittal dovrà aggiungere un puntino sulla mappa che disegna un gioco già visto e ripetuto ad arte più volte: quello della fuga.