[di Emma Gagliardi per CDCA] Una recente ricerca condotta da Xiaolei Guo, vicedirettore del Center for Performance and Design of Nuclear Waste Forms and Containers dell’Ohio, insieme ad alcuni scienziati dell’Ohio State University, riapre il dibattito sugli highly radioactive wastes, i rifiuti nucleari ad alta attività e lunga durata che rimangono pericolosi per gli esseri umani e per l’ambiente per centinaia di migliaia di anni: i metodi di smaltimento e stoccaggio a lungo termine di questa tipologia di scorie potrebbero essere meno affidabili e duraturi di quanto si pensasse.
Ad oggi sia negli Stati Uniti, dove vige il Nuclear Waste Policy Act, che nell’Unione Europea data la Direttiva 2011/70/EURATOM, in materia di stoccaggio e deposito di rifiuti ad alta attività, si prevede lo smaltimento tramite l’immobilizzazione degli scarti di fissione sottoforma di scorie di vetro o ceramica e il loro successivo immagazzinamento in contenitori di acciaio inossidabile, posizionati in depositi geologici profondi, atti a garantire un isolamento dalle attività umane e una stabilità su tempi molto lunghi. Anche l’Italia si è adeguata alla normativa europea per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito, proveniente dalle centrali ormai dismesse o dall’estero, e dei rifiuti radioattivi col DECRETO LEGISLATIVO 4 marzo 2014, n. 45.
Considerato da sempre uno dei più sicuri, tale metodo è ormai previsto da quasi tutti i paesi con attività nucleari civili e militari, sebbene fino al 2003 non fosse stato identificato alcun deposito geologico definitivo. Al di là infatti degli accertamenti che tuttora sono in corso in alcuni paesi europei (Germania, Francia, Belgio, Svezia e Svizzera) e del Canada, l’unico deposito geologico attualmente in esercizio è l’americano WIPP (Waste Isolation Pilot Plant) situato nel deserto salino del Nuovo Messico; mentre in Finlandia è in corso la costruzione del primo deposito geologico al mondo per lo smaltimento definitivo di rifiuti radioattivi ad alta attività, il deposito geologico di Onkalo. Tuttavia i risultati dello studio, pubblicati sul Nature Research Journal, pongono gravi dubbi sulla sicurezza a lungo termine dei metodi di stoccaggio di scorie altamente radioattive e introducono la reale possibilità che, contrariamente a quanto si sia sempre sostenuto, ci siano seri rischi in termini di rilascio di sostanze radioattive e conseguente contaminazione dell’ambiente.
Gli scienziati, simulando per 30 giorni le condizioni di stoccaggio dei rifiuti nucleari ad alta attività, hanno infatti evidenziato processi di “self-accelerated corrosion of nuclear waste forms at material interfaces” ovvero di corrosione accelerata sia della superficie interna dei fusti che del loro contenuto radioattivo. A tal proposito, gli autori dello studio evidenziano come gli attuali standard di sicurezza, basati sulla valutazione dei livelli di corruttibilità dei singoli gruppi di materiali in modo indipendente, non abbiano al contrario considerato le potenziali interazioni tra i diversi materiali che si trovano a contatto nei fusti. Il fenomeno della corrosione avverrebbe poiché il raffreddamento delle scorie depositate in ambienti pur sempre soggetti ad infiltrazioni d’acqua, fa sì che si formino degli spazi tra i fusti e la massa di vetro e ceramica che isola i rifiuti. L’acciaio dei fusti dissolvendosi genera cationi metallici, ovvero ioni metallici con carica elettrica positiva, che andando incontro a idrolisi, producono protoni. Questi aumentano fortemente l’acidità locale, che a sua volta rinforza la corrosione dell’acciaio e provoca quella del materiale vetroso o di ceramica, accelerando il tasso di rilascio delle specie radioattive prima trattenute. Tali processi sarebbero quindi dovuti a cambiamenti chimici dell’ambiente interno ai fusti e alle interazioni tra i livelli di acidità e alcalinità che, in uno spazio limitato, concorrono ad alterare significativamente la tenuta sia dei materiali entro i quali sono imprigionate le scorie, che dei contenitori metallici.
Il rischio, sebbene non immediato sottolineano gli scienziati, è quello di contaminazione nucleare dell’ambiente, inquinamento delle fonti idriche e compromissione della salute delle forme di vita nelle zone limitrofe ai depositi. “Il nostro studio dovrebbe essere preso in considerazione nella valutazione dello smaltimento di rifiuti nucleari. E’ necessario selezionare barriere compatibili per ottimizzare ulteriormente le prestazioni del sistema di deposito geologico”, concludono.
L’allarme risulta particolarmente preoccupante considerata l’elevata pericolosità dei combustibili scaricati dai rettori cosiddetti di 2° o 3° generazione ad uranio. Il “tempo di dimezzamento” della radioattività di rifiuti nucleari di seconda e terza categoria può infatti essere nell’ordine delle migliaia di anni e pertanto richiedere periodi di isolamento lunghissimi.
Quella dello stoccaggio dei rifiuti tossici, provenienti dalle centrali nucleari, è una questione molto spinosa, le cui immense implicazioni necessitano che se ne parli, si studi e si adottino misure adeguate alla messa in sicurezza dell’ambiente in cui si troveranno a vivere le future generazioni.