Il Sarno è di nuovo il fiume più inquinato d’Europa: l’effetto lockdown è già finito

[di Fabrizio Gatti per Espresso] Durante la quarantena le sue acque erano cristalline, ma con la ripartenza sono tornati i veleni e gli scarichi di fogne a cielo aperto. E gli ecologisti continuano a combattere

Visto da qui, ai piedi del Vesuvio, lungo uno dei panorami turistici più famosi e redditizi al mondo, il risveglio dalla prima ondata dell’epidemia non sembra aver portato nulla di nuovo. Più che l’ottimistico andrà tutto bene, riappare la desolazione dell’andrà tutto come prima. La plastica è tornata a infestare la campagna. E le condotte industriali a colorare l’acqua di rosso o di nero o dei riflessi arcobaleno dell’olio minerale, alternati a bollicine e batuffoli di schiuma.

Mentre gli scarichi a cielo aperto delle fogne urbane non hanno mai smesso di inquinare. Usciti dalle rovine di Ercolano e Pompei, potremmo entrare in un parco letterario, dove ambientare e raccontare le indimenticabili parole scritte quasi sessant’anni fa da Italo Calvino, con le storie di Marcovaldo e le stagioni in città. Questa è invece la spietata realtà di un fiume, il Sarno, e della sua gente costretta a vivere con il diciassette per cento di tumori in più, rispetto alla media di riferimento.

Una minoranza di cittadini, organizzati in comitati intorno all’attività di Legambiente, si batte piena di speranza perché le fotografie scattate durante le settimane di blocco totale per fermare il coronavirus tornino a essere la quotidianità: l’acqua di nuovo cristallina, le alghe verdi, perfino qualche pesce, così come il fiume ancora si presenta nei suoi primissimi chilometri. Non è utopia, se solo si spendessero bene i finanziamenti regionali, nazionali ed europei nel realizzare e far funzionare depuratori, collettori e vasche di recupero dei fanghi. Il Sarno è uno dei corsi d’acqua più brevi d’Italia. Soltanto ventiquattro chilometri, con appena trenta metri di dislivello, dal Golfo di Napoli alle sue cinque sorgenti ai piedi dei monti Picentini, tra l’omonimo comune e Nocera Inferiore. Ma il primato che lo rende unico è un altro: il Sarno è il fiume più inquinato d’Europa.

Gli abitanti del suo grande bacino idrografico, che interessa le province di Napoli, Salerno e Avellino, pagano pesantemente il prezzo dell’incuria. La notte tra il 5 e il 6 maggio 1998 valanghe di fango smosse dalla pioggia uccidono centosessanta persone e distruggono centottanta case. E poi ecco l’effetto delle sostanze cancerogene disperse lungo la pianura, dove convivono concerie di pelli, fabbriche che trasformano i pomodori in scatole di pummarola e la catena alimentare con le coltivazioni di ortaggi in serra e all’aperto. Una contaminazione invisibile, lenta e quotidiana documentata fin dal 1997, con l’indagine epidemiologica dell’Organizzazione mondiale della sanità che segnalò un diciassette per cento in più dei casi di cancro e leucemie tra gli abitanti della zona.

Dalla primavera 2019, con un piano tecnicamente intitolato “Programma degli interventi di mitigazione del rischio idraulico di interesse regionale afferenti il bacino idrografico del fiume Sarno”, la Regione Campania ha finanziato lavori per 217 milioni: poco più di duecento milioni stanziati da Bruxelles attraverso i programmi operativi del fondo europeo di sviluppo regionale 2007-2013 e il resto a carico del bilancio campano. Il fiume Sarno ha infatti anche questo straordinario primato. Dal 1995 ha prosciugato l’equivalente di 666 milioni di euro, attraverso una selva di interventi decisi da autorità, enti, agenzie e commissari straordinari, ai quali si aggiunge nel 2018 una ulteriore previsione di spesa regionale di 401 milioni. Fanno un totale di quasi un miliardo e settanta milioni di euro: quarantacinque milioni a chilometro, all’incirca lo stesso costo della linea ad alta velocità Roma-Napoli, anche se l’acqua dalle sorgenti al mar Tirreno si muove gratis.

Con quei soldi si sarebbero potuti costruire scolmatori sotto il letto del fiume e dei suoi affluenti e depuratori adeguati, come è avvenuto in altri bacini inquinati d’Italia. Gli effetti invece galleggiano a pelo d’acqua. Dipende dal vento e dalla corrente: a volte schiume fognarie e bucce di pomodoro si disperdono in mare aperto, altre risalgono fino alle scogliere di Capri. E quando piove troppo, le esondazioni ricoprono di fanghi tossici strade, interi quartieri e campi di verdure.

Basterebbero intanto poche migliaia di euro per tagliare i canneti lungo le rive, ripulire le griglie dai rifiuti e dragare il fondo dai detriti. Banali interventi che in tutto il mondo avanzato rientrano nell’ordinaria manutenzione, tranne qui. Osservato da un’ottica perversa, anche l’inquinamento permanente è insomma una grande risorsa economica.

Gli archivi della burocrazia locale parlano di bonifica del fiume Sarno fin dal 1973, dopo l’epidemia di colera che quell’anno colpì la Campania. Se fosse andato tutto bene, secondo la retorica del contagio attuale, enti pubblici e imprese appaltatrici come avrebbero incassato o sperato di incassare l’equivalente di un miliardo di euro? Peccato che da allora il vibrione del colera abbia lasciato il posto all’avvelenamento invisibile di migliaia di persone. E che le conseguenze, sulla qualità del mare e della costa, portino i turisti a visitare i siti archeologici, sì, ma poi ad andarsene per sempre.

Se lo sviluppo urbanistico caotico e abusivo ha cancellato le spiagge, non ci si può nemmeno rifugiare in montagna: lo stato di conservazione del magnifico parco del Vesuvio, devastato dopo le discariche anche dagli incendi, è un esempio di degrado e distruzione delle risorse naturali che non ha paragoni. Quello che però le fotografie non possono raffigurare, né i comitati di cittadini risolvere da soli, è la ragione principale del fallimento, di cui il fiume Sarno è soltanto uno dei tanti esempi nazionali: la foresta burocratica, la sovrapposizione di enti e competenze e l’inefficacia del sistema di affidamento, esecuzione e controllo degli appalti di fronte all’incapacità tecnica delle ditte premiate. Ma, anche, una mancanza di amore politico per l’ambiente e le sue inestimabili ricchezze. È lo stesso inquinamento di carte, decreti, ricorsi, sentenze amministrative e controricorsi nel quale, senza una riforma adeguata, sprofonda l’intero Paese.

«Stiamo cercando in tutti i modi di arrivare al discorso dell’ecocompatibilità del prodotto qualificato», dichiara in un documentario mandato in onda recentemente da RaiNews24, Luciano Guarino, produttore di pelli di lusso a Solofra, «però dobbiamo anche comprendere che nella filiera della moda e del made in Italy noi siamo alla base. E la filiera ci comprime, in special modo nei momenti di crisi come sta succedendo adesso: dopo il coronavirus, le grandi firme stanno già chiedendo ai loro fornitori e ai loro terzisti vari sconti, per aver consegnato le merci ordinate prima della crisi. Quindi questo significa costringere molti o a chiudere o a trovare altre strade borderline, grigie, nere: gli scarichi abusivi. Tutto questo si risolve con un contratto di filiera, di cui noi siamo parte attiva di quello che è il made in Italy, nel quale ci vengano riconosciuti i costi e le spese. Nel momento in cui il governo italiano farà dei provvedimenti per le grandi firme, deve ricordare che il made in Italy parte dall’artigiano».

La concorrenza sleale di quegli imprenditori conciari, che abbassano i pressi risparmiando attraverso lo smaltimento illegale delle acque, è soltanto una delle cause del dissesto ambientale. Anche l’agricoltura fa la sua parte, con l’abuso di diserbanti e pesticidi. Ma poi ci sono le amministrazioni comunali locali, che non si sono mai adeguate agli obblighi. Lo denuncia nel 2006 la relazione conclusiva della commissione parlamentare di inchiesta sul fiume Sarno. «In ordine al contributo fornito all’inquinamento dai reflui urbani, la commissione ha verificato che in media i Comuni del bacino dispongono di allacciamenti fognari per circa il 30 per cento delle relative popolazioni».

Il rischio di contaminazione da liquami fecali e industriali non riguarda soltanto il fiume. Arriva a coinvolgere la falda grazie alla diffusione di pozzi illegali che, per l’eccessivo pompaggio, richiamano dall’alto acque con tassi di inquinamento più elevati. «Nel 2004 le amministrazioni provinciali censirono 6.334 pozzi, la maggioranza dei quali privati», scrive la commissione parlamentare d’inchiesta: «Un calcolo ragionato, in assenza di un censimento aggiornato, peraltro difficilissimo da eseguire per l’elevato abusivismo, fa ascendere a qualcosa come diecimila e più i pozzi di vario tipo esistenti nella piana sarnese… Un quantitativo dalla connotazione allucinante».

Qualche momento di allucinato sconforto deve averlo anche il magistrato Gemma Tramonte, quando il 29 novembre 2012 come relatrice presenta il dossier sul fiume Sarno alla Corte dei conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato. Più che un drammatico resoconto, il suo sembra il copione di un’incredibile commedia: «Ripresi i lavori sotto la vigilanza della nuova direzione… le attività si concentravano maggiormente sul completamento di un ramo del collettore, che fra tutti si presentava in avanzato stato di ultimazione, avente la funzione di coinvolgere i reflui del comune di Sant’Antonio Abate all’impianto di depurazione di Scafati, ormai ultimato, che per la messa in esercizio necessitava della immissione dei reflui fognari».

È il momento che ogni progettista e ogni committente aspetta: vedere con sollievo che l’opera funziona. «Durante la fase preparatoria delle operazioni di collaudo», aggiunge invece il magistrato Gemma Tramonte: «Furono evidenziate nelle tubazioni posate gravi criticità che ne rendevano impossibile la messa in funzione: la condotta presentava tratti in contropendenza, in alcuni punti si presentava ovalizzata e in altri penetrava in pressione acqua di falda».

Far scorrere l’acqua in salita sarebbe stata un’opera straordinaria. In fondo lo scriveva anche il poeta Ovidio, settantun anni prima della distruzione di Pompei: «Grazie a voi, quando voglio, i fiumi tornano fra le rive stupite alle sorgenti». Anche per questo i ragazzi del circolo Leonia di Legambiente e del Comitato fine della vergogna meritano la piena ammirazione perché, soli e determinati, stanno cercando di riscrivere il finale di questa storia.