La molteplicità dei fattori in gioco nelle migrazioni indotte da cause ambientali

mianmar_AP(2)[di Koko Warner su diarioeuropeo.it] Lo scenario definito dall’International Panel on Climate Change suggerisce che il cambiamento climatico avrà un’importanza crescente tra i fattori determinanti della migrazione indotta da cause ambientali. I prossimi decenni saranno probabilmente caratterizzati da crescenti flussi in uscita dalle aree rurali, soggette a pressione ambientale e caratterizzate da bassi redditi nel settore agricolo, particolarmente nei paesi in via di sviluppo. Il cambiamento climatico, soprattutto attraverso il riscaldamento globale, finirà per esacerbare tali pressioni e accelerare i processi migratori. La migrazione indotta da cause ambientali è ancora una questione emergente e relativamente inesplorata, sia in termini di ricerca scientifica approfondita, sia in termini di disponibilità di dati affidabili. Non esiste una definizione comunemente accettata di migrazione indotta dal cambiamento ambientale, il che complica la comprensione delle complesse interazioni tra cambiamento ambientale e mobilità umana. Recenti progetti, metodi e nozioni di ricerca fondati su dati empirici stanno aiutando a colmare alcune delle più importanti lacune sul rapporto tra cambiamento ambientale, migrazioni e sfollamenti. Definire la migrazione indotta da cause ambientali I migranti ambientali sono stati classificati da Renaud et al. (2010)1 come “migranti in seguito a emergenze ambientali”, che fuggono dai peggiori impatti ambientali per salvare le proprie vite; “migranti forzati da cause ambientali”, che devono partire per sfuggire a conseguenze gravi e inevitabili del degrado ambientale; e infine “migranti motivati da cause ambientali”, che decidono di lasciare un ambiente in corso di deterioramento costante per prevenire le conseguenze peggiori. In letteratura i migranti ambientali sono stati definiti in molteplici modi. Per esempio, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni definisce i migranti ambientali come “persone o gruppi di persone che, a causa di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente che influiscono negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro abituali abitazioni, o scelgono di farlo, sia in maniera temporanea che permamente, e che devono spostarsi all’interno del loro paese o all’estero”2 . Esistono due ragioni principali per le quali usare il termine “rifugiato ambientale” è inappropriato. Innanzi tutto i dati empirici mostrano che la maggior parte dei migranti ambientali restano all’interno dei confini nazionali, mentre il diritto dei rifugiati nella sua attuale forma si applica solamente alle migrazioni internazionali. In secondo luogo, la definizione di rifugiato fornita dall’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati (emendata dal Protocollo del 1967 relativo allo status), stabilisce che il rifugiato è colui che “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”3 . La formulazione dell’articolo non menziona eventi, fattori o processi relativi all’ambiente naturale, di conseguenza in termini legali non è corretto usare il termine “rifugiato ambientale” o “rifugiato climatico”. Secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite sullo sfollamento delle persone all’interno del loro paese, “Gli sfollati sono persone o gruppi di persone che sono state costrette od obbligate a fuggire o a lasciare le proprie case o i propri luoghi di residenza abituale, in particolare come conseguenza di un conflitto armato, di situazioni di violenza generalizzata, di violazioni dei diritti umani o di disastri naturali o provocati dall’uomo, o allo scopo di sfuggire alle loro conseguenze e che non hanno attraversato le frontiere internazionalmente riconosciute di uno Stato.”4 I migranti ambientali sfollati all’interno del loro paese possono perciò ottenere lo status di Internally Displaced Persons (IDPs, sfollati interni) se sono sfollati a causa di un disastro naturale. Tuttavia, a differenza della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, i Principi Guida sullo sfollamento delle persone all’interno del loro paese non hanno carattere vincolante per i paesi membri dell’ONU. Per evitare formulazioni ambigue, sia nel caso di migrazioni interne o internazionali, è perciò più appropriato usare i termini “migranti ambientali” e “migrazione indotta da cause ambientali”.

 

Stime globali

 

Le stime sul numero di migranti ambientali sono oggetto di intenso dibattito, il che sottolinea come il livello di conoscenza relativo al modo in cui i mutamenti ambientali si ripercuotono sulla migrazione umana non è ancora sufficiente. Sono necessari più dati e una maggiore ricerca per dare vita a una discussione quantitativa fondata. Secondo l’UNHCR, nel 2002 i migranti ambientali erano circa 24 milioni, definiti come “persone fuggite a causa di inondazioni, carestie o altri disastri ambientali”5 . Le previsioni sul potenziale numero di migranti ambientali entro il 2050 variano da 50 milioni a 350 milioni; la stima più citata è quella fornita da Myers, che prevede 200 milioni di potenziali migranti ambientali entro il 20506 . L’Intergovernmental Panel on Climate Change (2007) prevede che la cifra raggiunga i 150 milioni entro lo stesso anno7 , mentre il Rapporto Stern (2006) parla di circa 200 milioni di probabili sfollati ambientali8 . Esistono comunque una serie di ragioni per cui le stime sul numero di persone che potrebbero trasformarsi in migranti ambientali in futuro non sono affidabili: la mancanza di una definizione condivisa di migranti ambientali, la molteplicità e la complessità delle ragioni dietro la scelta di migrare, l’insufficiente attendibilità delle serie storiche o dei dati su cui tali stime si fondano, infine le incertezze sugli scenari futuri di cambiamento climatico. L’Università dell’ONU sta portando avanti una serie di ricerche sul campo relativamente a fattori ambientali e migrazione, per arrivare a una migliore comprensione dei processi sottostanti e per ottenere dati statistici più precisi. Ad esempio, al momento ha dato vita a una partnership strategica con CARE per esplorare i differenti impatti dei modelli di cambiamento meteorologico sulle condizioni di vita, sulla sicurezza alimentare e sulla mobilità umana. La ricerca viene condotta in otto paesi (Guatemala, Perù, Kenya, Tanzania, India, Bangladesh, Thailandia e Vietnam)9 .

 

Complessità dei processi migratori

 

I processi di mobilità umana sono sempre complessi e le persone si spostano a causa di diversi fattori ambientali, sociali, economici e politici intrecciati tra loro. Una vasta gamma di eventi, fattori e processi, improvvisi o a lenta insorgenza, possono portare alla migrazione e allo spostamento: uragani, tornado, tsunami, piogge intense, aumento del livello del mare, desertificazione, siccità ecc. Quando interrogate sulla loro decisione di spostarsi, le persone tendono per lo più a spiegare la loro scelta in termini economici; in realtà, un’analisi più approfondita mostra che i principali fattori determinanti le condizioni socio-economiche che portano alla migrazione sono spesso legati al contesto ambientale. Una prima importante distinzione deve essere effettuata tra lo spostamento forzato e la migrazione in seguito a una decisione (per quanto talvolta sotto forte pressione): la prima è un evento intrinsecamente negativo, mentre la seconda può essere una positiva strategia di adattamento in risposta a cambiamenti del clima e dell’ambiente. Le persone che lasciano una determinata area a causa della pressione ambientale possono partire in maniera temporanea, stagionale oppure permanente. Spesso, quando lasciano la loro zona di origine, i migranti non sanno se saranno in grado di farvi ritorno. La migrazione può essere a livello individuale o familiare: di fronte a una pressione ambientale che mette a rischio le possibilità di sussistenza, i nuclei familiari possono decidere di rimanere ma di mandare una o più persone a lavorare all’esterno dell’area di origine, in modo da diversificare le fonti di reddito e i rischi, senza però abbandonare il loro insediamento originario.

In aggiunta a tali questioni legate ai “fattori di spinta” all’emigrazione da parte delle aree di origine, esistono una serie di “fattori d’attrazione” da parte delle aree di destinazione, così come una serie di altri fattori accessori (costo della migrazione, politiche di migrazione/registrazione, infrastrutture di trasporto, informazioni disponibili per i potenziali migranti…) da prendere in considerazione nel definire politiche per affrontare la questione della migrazione per cause ambientali. Considerata la complessità della questione illustrata finora, è cruciale affrontare il fenomeno della migrazione indotta da cause ambientali a livello locale e con un approccio “caso per caso”. Tale approccio dovrebbe aiutare la comunità scientifica a ottenere una conoscenza e una comprensione più profonde delle dinamiche globali della migrazione indotta da cause ambientali, specialmente attraverso un’analisi dei punti comuni e delle differenze tra diversi casi e diversi contesti. Una comprensione più profonda a sua volta aiuterebbe i decisori politici a delineare un quadro adeguato per la protezione dei migranti ambientali. I dati empirici sulla questione mostrano che, in tutti i differenti contesti e casi, sono spesso le persone più vulnerabili quelle sfollate o costrette a migrare per fattori, eventi o processi ambientali.

 

Implicazioni politiche

 

Riguardo le implicazioni politiche delle migrazioni indotte da cause ambientali, esistono alcuni interessanti tentativi di affrontare il problema, ad esempio lo status di protezione temporanea (TPS) negli Stati Uniti e in Europa, così come principi e soft law per proteggere le persone sfollate a causa di disastri ambientali10. All’interno dell’Unione Europea, sia la Svezia che la Finlandia hanno leggi simili a quella degli Stati Uniti riguardo lo status di protezione temporanea. Tuttavia, a parte la dimensione umanitaria della migrazione indotta da cause ambientali affrontata da tali principi e leggi, eventi più complessi e a lenta insorgenza pongono in realtà una sfida maggiore ai quadri legislativi e di governance, soprattutto perché in questi casi le responsabilità e i limiti temporali sono difficili da assegnare. I decisori politici devono adottare un approccio olistico a tale questione emergente. Nelle aree di origine colpite da disastri naturali e/o fenomeni a lenta insorgenza come il degrado ambientale, è essenziale prevenire la migrazione e al contempo lavorare alla preparazione degli spostamenti che potrebbero comunque verificarsi, agendo sui driver, ambientali e non, della migrazione (ad esempio insicurezza dei mezzi di sussistenza, rischi ambientali, conflitti, pressioni demografiche, inuguaglianze di genere…) Se la migrazione ha comunque luogo, è infatti importante mitigare i potenzali effetti negativi sia nelle aree di provenienza che in quelle di arrivo. Nel caso in cui il ritorno dei migranti sia possibile e auspicabile, dovrebbe essere fornito adeguato supporto ai potenziali migranti di ritorno, mentre se la migrazione è permanente (ad esempio quando il ritorno non è possibile o auspicabile) è essenziale lavorare sull’integrazione dei migranti nelle aree riceventi. Alcuni dei seguenti esempi di prospettive politiche potrebbero aiutare a delineare attività relative agli spostamenti e alle migrazioni indotte da cause ambientali o climatiche: – aiutare le persone a rimanere nelle zone di provenienza attraverso uno sviluppo rurale e urbano sostenibile: in molti casi lo sfollamento indotto dal clima può essere evitato assicurando alle persone colpite mezzi di sussistenza adeguati, sia nelle aree rurali che in quelle urbane. Oggi quasi il 25% della popolazione mondiale è costituita da agricoltori e la percentuale è anche più alta nei paesi in via di sviluppo. Il cambiamento climatico pone una sfida crescente a tali mezzi di sussistenza; se diventano insostenibili, le persone possono trovarsi ad affrontare la migrazione forzata o lo sfollamento. – assicurare alle persone sicurezza e dignità attraverso una pianificazione preventiva: il paragrafo 14f del Quadro di adattamento di Cancun constata la possibilità che una ricollocazione pianificata diventi parte di futuri scenari di adattamento. Nei casi in cui il movimento di popolazioni è la migliore o la sola strategia di adattamento, risposte politiche efficaci possono aiutare ad assicurare che tali movimenti siano sicuri e ordinati. Le risposte politiche dovrebbero avere come obiettivo quello di evitare situazioni in cui le persone siano costrette a spostarsi (distress migration) o si spostino in situazioni di emergenza, assicurando invece che gli sfollati non diventino più vulnerabili dopo lo spostamento. – Sostenere la riduzione del rischio di disastri e strategie di mediazione dei conflitti, rafforzando al contempo le risposte umanitarie. I governi devono intraprendere azioni per ridurre i rischi affrontati dalle persone nel caso di crisi acute derivanti da disastri naturali e dai rischi derivanti dalla competizione per le risorse, potenziali fonti di conflitto. In caso contrario saranno chiamati in causa in seguito, quando i problemi saranno di più difficile soluzione.

 

[Traduzione dall’inglese di Beatrice Orlandini]

 

Note

1. F. Renaud, O. Dun, K. Warner, J. Bogardi, A Decision Framework for Environmentally Induced Migration, “Special Issue of the International Migration Journal”, International Organization for Migration (IOM), 2010.

2. http://www.iom.int/jahia/Jahia/definitional-issues (trad. B. O.).

3.http://www.unhcr.it/cms/attach/editor/PDF/Convenzione%20Ginevra%201951.pdf

4. La versione integrale del documento, in inglese, UN High Commissioner for Refugees Guiding Principles on Internal Displacement, 22 luglio 1998, E/CN.4/1998/53/Add.2, è disponibile sul sito http://www.unhcr.org/refworld/docid/3c3da07f7.html/.

5. UNHCR, The Environment – A Critical Time. In “Refugees Magazine”, n. 127, 2002.

6. IOM, Migration, Climate Change and the environment. In “IOM Policy Brief Reparation Programmes”, luglio 2009.

7. IPCC Working Group II Contribution to the Intergovernmental Panel on Climate Change Fourth Assessment Report, Climate Change Impacts, Adaptation, Vulnerability (Summary for Policymakers, IPCC WGII Fourth Assessment Report), 2007.

8. N. Stern, Stern Review on the Economics of Climate Change, 2006. Disponibile in inglese sul sito http://www.hm_treasury.gov.uk/independent_reviews/stern_review_economics_ climate_change/stern_review_report.cfm).

9. I risultati saranno presentati in occasione della COP18 a Doha e sul sito internet http://www.ehs.unu.edu.

10. Vedi Mohamed Hamza, Corendea Cosmin (a cura di), Climate Change and Fragile States. Rethinking Adaptation. SOURCE No. 16, United Nations University Institute for Environment and Human Security (UNUEHS), Bonn, 2012.

Pubblicato su  diarioeuropeo.it