Sblocca Italia e politica energetica: i fossili di Renzi

 

Stop-all-uso-delle-fonti-fossili[di Andrea Boraschi su Zeroviolenza.it] Per comprendere quanto sta avvenendo oggi in Italia sul fronte energetico conviene fare un passo indietro. Può essere utile, ad esempio, leggere quanto scrive il Ministero dello Sviluppo Economicoin un numero speciale del Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse, pubblicato lo scorso marzo:

 
«L’attività di ricerca di nuovi giacimenti in mare ha visto il suo massimo periodo di espansione nei primi anni Novanta con una media di circa 80 nuovi pozzi perforati all’anno dei quali una buona parte di tipo esplorativo. Dalla seconda metà degli anni Novanta il numero di nuove perforazioni in mare è andato gradualmente a ridursi e nell’ultimo decennio si è assistito ad una progressiva diminuzione dell’attività di ricerca di nuovi giacimenti.

 

L’attività degli operatori è ormai quasi esclusivamente orientata alla ottimizzazione e allo sviluppo dei giacimenti noti piuttosto che alla ricerca di nuove risorse. In particolare dal 2008 al 2014 sono stati effettuati meno di 20 nuovi pozzi all’anno, nessuno dei quali di tipo esplorativo. Anche dal punto di vista dei ritrovamenti l’ultimo decennio è risultato poco incoraggiante con soli 11 pozzi esplorativi con esito positivo a gas e con il solo pozzo “Ombrina Mare 2 dir” con esito positivo ad olio».

 
Quello che descrive il MISE – parlando dell’estrazione di gas e petrolio a mare – è un settore sostanzialmente esangue, che ha vissuto il suo periodo di maggiore espansione oltre 20 anni fa e che oggi vive d’inerzia. Si tratta di uno scenario che, tuttavia, negli ultimi mesi è radicalmente cambiato. Come e perché questo sia avvenuto, è quanto tenterò di accennare qui. Partendo dal come.
 

La storia non è semplice. Tecnicamente potrebbe essere letta nei meandri della farraginosa legislazione italiana: per stare agli ultimi anni, tra il decreto Prestigiacomo – che poneva limiti piuttosto severi alla ricerca e alla coltivazione di idrocarburi in mare – passando per il decreto Sviluppo di Passera, che quei limiti ha largamente aggirato, fino allo Sblocca Italia di Renzi – un congegno normativo a suo modo perfetto per spianare la strada del mare ai petrolieri – i legislatori hanno approvato tutto e il contrario di tutto.
 

Del resto il dato normativo può essere interpretato come un “riflesso” degli indirizzi politici correnti: e se a testimonianza di questi ultimi si assume la Strategia Energetica Nazionale (SEN) del governo Monti, allora non è difficile capire le mille giravolte, i bizantinismi e ogni ipertrofia legislativa in cui si è prodotto il legislatore negli ultimi anni, pur di riportare le trivelle nei nostri mari.
 

Quel testo, la famigerata SEN, è un condensato di miopia e vacuità in termini di strategia energetica: disegna uno scenario di breve-medio termine in cui si tace di molte cose (ad esempio, si dice poco o nulla di una fonte fossile particolarmente dannosa quale il carbone), si enuncia qualche doverosa petizione di principio su rinnovabili ed efficienza energetica (senza prevedere misure concrete per la crescita di entrambe) e, sopra ogni cosa, si delinea un piano che avrebbe dell’incredibile, se non fosse vero: lo sfruttamento intensivo delle riserve nazionali di idrocarburi.
Che sono poche, di scarsa qualità, e rappresentano per il nostro Paese un’opzione energetica sterile e contraddittoria, se consideriamo gli ingenti investimenti sulle rinnovabili che tutta la comunità nazionale ha sostenuto, pagando i consumi elettrici investimenti  che andrebbero portati a definitiva maturazione, per essere trasformati stabilmente in un vantaggio industriale.
 

Per contro, ogni analisi dei dispositivi di legge approntati a mo’ di regalia per i petrolieri potrebbe risultare superflua di fronte a un dato di fatto, apparso chiarissimo negli ultimi due mesi: c’è un governo che sta emanando decreti autorizzativi con un ritmo da catena di montaggio. In poche settimane, l’intero Adriatico (fatta eccezione per la parte più settentrionale, davanti alle coste del Veneto) è stato messo a disposizione per ricerche geosismiche con la tecnica dell’airgun, per realizzare nuovi pozzi di ricerca o nuovi pozzi di estrazione.
 

Nuove piattaforme e nuove attività di ricerca sono altresì state autorizzate nel Canale di Sicilia; ai petrolieri si vanno consegnando anche le acque delle Ionio e vedremo nei prossimi mesi se si vorranno concedere loro persino i mari della Sardegna, già oggetto di richieste per attività di prospezione.
 

Se questo è un quadro sintetico, che può almeno in parte spiegare come si arriva all’oggi (e la situazione nei prossimi giorni e settimane riserverà certamente ulteriori sviluppi), spiegare il perché di questa storia è assai più difficile.

 

Greenpeace contrasta l’uso delle fonti fossili principalmente per scongiurare gli effetti più nefasti del cambiamento climatico.
 

Contrastiamo anche l’impiego di petrolio, opponendoci all’estrazione di quelle riserve che – per modalità di estrazione e rischi ambientali – sono le prime che dovremmo lasciare sotto terra. Per questo la nostra campagna, in Italia, è focalizzata sulle riserve di idrocarburi offshore: perché le estrazioni in mare sono attività potenzialmente disastrose, come ci ha insegnato una storia fitta di incidenti gravissimi.
 

Quali benefici otterrebbe il nostro Paese da una attività diffusa e intensiva di estrazione dai giacimenti a mare? La risposta è: poco e niente, in termini di vantaggio; molto, in termini di danno al territorio, agli ecosistemi, all’economia.
 

Ad oggi in Italia si estrae un quantitativo di gas equivalente all’incirca al 10 per cento dei consumi nazionali, la quantità estratta in mare è pari al 7 per cento circa; per quanto riguarda il petrolio, invece, le estrazioni in Italia coprono quasi il 10 per cento, con quelle in mare che rappresentano l’1,3 per cento. Le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali equivalgono a meno di due mesi dei consumi nazionali; quelle di gas a circa sei mesi. Ovvero, per stare al solo greggio: se fossimo in grado di estrarre in un sol colpo tutto l’ “oro nero” che c’è sotto i nostri mari, basterebbe al Paese per 7-8 settimane.
 

Quel petrolio, fatalmente, non verrebbe mai estratto in un sol colpo: si parla di concessioni che durerebbero almeno un ventennio; ugualmente, pensare all’impiego che potremmo farne come nazione non ha senso, perché quel petrolio sarebbe “privato”, risorsa delle compagnie che lo estrarrebbero pagando royalties tra le più basse al mondo e godendo di franchigie altrove inspiegabili.

 

Sono questi gli unici strumenti disponibili, in mancanza di riserve ingenti e pregiate, per attirare nei nostri mari i petrolieri: iter autorizzativi ultrasemplificati (lo Sblocca Italia) e regimi fiscali da Paese della cuccagna. Ma queste estrazioni non accrescerebbero la nostra indipendenza energetica, non contribuirebbero significativamente alle casse di Stato e governi locali.
 

Forse si potrebbe creare occupazione? Scrive Leonardo Maugeri – esperto di petrolio e gas di fama mondiale, professore ad Harvard e a lungo in predicato di prendere la guida dell’Eni – sul Sole 24ore: «L’industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell’Arabia Saudita, impiega circa 50.000 persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale.
 

Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (al di là degli aspetti fiscali) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l’assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25.000): forse il numero sarebbe di poche migliaia». Poche righe oltre, Maugeri spiega anche come gli investimenti richiesti per estrarre più intensamente idrocarburi in Italia non avrebbero un effetto di “trascinamento” sulla nostra economia.
La “vocazione fossile” del governo Renzi mette a rischio i nostri mari, una delle risorse naturali più preziose di cui gode il nostro Paese; comprime i diritti democratici delle comunità e dei territori impattati dai progetti (con lo Sblocca Italia); avrà ricadute occupazionali modestissime, così come scarse saranno le entrate fiscali per lo Stato e i governi locali; danneggia settori strategici per la nostra economia, in primis il turismo ma anche la pesca sostenibile; causerà notevoli impatti a fronte dell’estrazione di una quantità trascurabile di risorse energetiche; confermerà l’Italia nella sua dipendenza dalle fonti fossili, invece di promuovere rinnovabili ed efficienza; rappresenta la negazione di tutte le belle parole spese in più circostanze per la salvaguardia del clima.
 

Mi rendo conto di non aver risposto alla più importante delle domande che avevo posto a me stesso e al lettore: “perché?”. Mi accorgo che un motivo sensato, razionale, magari contestabile ma almeno intelligibile per spiegare l’offesa che si intende arrecare al nostro mare, di fatto, non c’è.
C’è e ci sarà invece, di qui in avanti, sempre maggiore opposizione a questo piano sciagurato.

 

Pubblicato il 28 giugno 2015 su  Zeroviolenza.it