Naomi Klein: ‘Se parliamo di clima parliamo di guerra’

Siccità Siria[Di Jason Box e Naomi Klein su Espresso.repubblica.it] È provato il collegamento tra la siccità e l’aumento della violenza in Siria. Ecco perché Parigi è il luogo giusto per discutere insieme dei due problemi.

Subito dopo gli orrendi attentati terroristici di Parigi i nostri telefonini hanno ricevuto moltissimi messaggi spediti da amici e colleghi: “Così adesso cancelleranno il summit di Parigi sul cambiamento del clima?”, “Rullano i tamburi di guerra, possiamo star certi che smorzeranno l’attenzione sul cambiamento del clima”. Questa supposizione è abbastanza ragionevole. Mentre molti politici sostengono soltanto a parole quanto sia urgente e di vitale importanza risolvere la crisi del clima, la questione del clima regolarmente esce dai radar della politica non appena inizia a manifestarsi una crisi ancora più opprimente; una guerra, uno shock dei mercati, un’epidemia.

Dopo gli attentati, il governo francese ha voluto mantenere l’appuntamento del COP 21, il summit sul clima. Ma la polizia ha vietato i cortei e le manifestazioni di piazza (quella che comunque si è tenuta è finita tra scontri con la polizia e gas lacrimogeni), mettendo efficacemente a tacere le voci dei popoli direttamente interessati da questi colloqui ad alto livello. Ed è davvero molto difficile capire in che modo l’innalzamento dei mari e l’inaridimento dei terreni agricoli – argomenti difficili di cui parlare nei media perfino nei periodi migliori – possono ora e potranno in futuro competere con la rapida escalation militare e con le esortazioni a trasformare i confini in muri fortificati.

Tutto ciò è perfettamente comprensibile: quando sentiamo che la nostra sicurezza è a rischio, è difficile pensare ad altro. Traumi violenti come gli attentati di Parigi sono maledettamente validi per far cambiare argomento. E se noi decidessimo di non farlo accadere? E se, invece di cambiare argomento, approfondissimo il dibattito sul cambiamento del clima e allargassimo il ventaglio delle soluzioni disponibili, che sono di vitale importanza ai fini di una reale sicurezza per il genere umano? E se, invece di essere messo in disparte nel nome di una guerra, l’intervento a favore del clima occupasse il centro del palcoscenico, fosse il punto clou del dibattito, e diventasse così la migliore speranza di pace per il pianeta?

Il collegamento tra l’innalzamento delle temperature e il ciclo delle violenze in Siria è, ormai, inconfutabile. Il segretario di Stato John Kerry questo mese in Virginia ha detto: «Non è un caso se, immediatamente prima che scoppiasse la guerra civile in Siria, il Paese ha vissuto la peggiore carestia di sempre. Circa un milione e mezzo di siriani sono sfollati dalle campagne nelle città, esacerbando il malcontento politico che stava appena iniziando ad agitare e ribollire nella regione».

Come ha continuato a far notare Kerry, sono molti i fattori che hanno contribuito all’instabilità della Siria. La grave siccità è uno di questi, e così pure le pratiche repressive di un crudele dittatore e l’affermarsi di una varietà particolare di estremismo religioso. Altro fattore scatenante di primaria importanza è l’invasione dell’Iraq, avvenuta dieci anni fa. Tenuto conto che quella guerra – così come tante prima di essa – era inestricabilmente collegata alla sete di petrolio iracheno da parte dell’Occidente (che sia maledetto il riscaldamento), a sua volta anche quella decisione fatale è inscindibile dal cambiamento del clima. In questo contesto instabile di troppo petrolio e troppo poca acqua Lo Stato islamico, che ha rivendicato gli attentati di Parigi, ha trovato fertile terreno.

Se ammettiamo che l’instabilità originaria del Medio Oriente ha queste radici, ha davvero poco senso lasciare che gli attentati di Parigi ridimensionino gli impegni, per altro già inadeguati, che abbiamo sottoscritto nei confronti del clima. Al contrario, questa tragedia dovrebbe ispirarci una reazione opposta, e spingerci a dare un sollecito impulso a ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, il più rapidamente e incisivamente possibile, includendo un forte supporto ai Paesi in via di sviluppo affinché passino alle energie rinnovabili subito, e creando così i tanto necessari posti di lavoro e varie opportunità economiche. Questo tipo di coraggiosa transizione a favore del clima è la nostra unica speranza di scongiurare un futuro nel quale ampie aree del Medio Oriente entro la fine del secolo “saranno interessate da temperature insostenibili per gli esseri umani”, come si legge in un recente rapporto pubblicato sulla rivista “Nature Climate Change”.

Ma neppure questo è sufficiente. Le più drastiche riduzioni di emissioni potranno soltanto scongiurare un ulteriore peggioramento del cambiamento del clima. Non potranno però fermare il riscaldamento che già si manifesta, né quello già assicurato in conseguenza di tutti i combustibili fossili che abbiamo bruciato. Dal nostro dibattito sul clima, pertanto, è assente un frammento fondamentale, l’esigenza di abbassare immediatamente i livelli di CO², nell’atmosfera, portandoli dalle attuali quattrocento parti per milione al limite massimo del livello ritenuto non pericoloso, ossia trecentocinquanta parti per milione.

Le implicazioni di un eventuale fallimento nella riduzione delle emissioni fino a livelli più sicuri vanno ben oltre il moltiplicarsi di catastrofi come la peggiore siccità in Siria. L’ultima volta che i livelli di CO² nell’atmosfera sono arrivati così in alto, i livelli globali dei mari erano di almeno sei metri più alti. Ci siamo trovati così alle prese con lo scioglimento degli strati ghiacciati che, in alcune aree particolarmente vulnerabili, sembra già inarrestabile. Nell’attuale clima di eccesso di CO² è soltanto questione di tempo prima che centinaia di milioni di persone siano costrette ad abbandonare le regioni costiere e diventino sfollate, e che l’acqua salata si infiltri nei terreni agricoli e nelle falde freatiche.

Tra le regioni più esposte al mondo ci sono ampie fasce del sud e del sudest asiatico – dove sono ubicate alcune delle città più grandi del pianeta, da Shanghai a Giakarta – oltre a numerosi Paesi dell’Africa e dell’America Latina come Nigeria, Brasile ed Egitto.

Un vertice sul clima che si dovesse svolgere sullo sfondo di una violenza alimentata anche dal clima e dalla migrazione potrà acquistare risonanza soltanto se suo obiettivo prioritario sarà quello di creare i presupposti per una pace duratura. Ciò vorrebbe dire assumersi impegni vincolanti ed esecutivi a lasciare sottoterra la stragrande maggioranza delle riserve note di combustibili fossili. Vorrebbe altresì dire procurare veri finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo per consentire loro di affrontare le conseguenze del cambiamento del clima, e riconoscere i pieni diritti di quanti sono costretti a migrare a causa del clima e a trasferirsi in terre più sicure. Un forte accordo di pace sul clima dovrebbe includere anche un programma per piantare un gran numero di alberi di specie native in Medio Oriente e nel Mediterraneo, per assorbire il CO² nell’atmosfera, diminuire la desertificazione e promuovere climi più freschi e umidi. Limitarsi a piantare alberi, ovviamente, non è sufficiente per portare il CO² a livelli più bassi e sicuri, ma potrebbe contribuire ad aiutare la gente a restare nelle proprie terre e a tutelare mezzi di sussistenza sostenibili.

Già sapevamo che il summit di Parigi non avrebbe raggiunto tutti questi risultati, ma appena pochi giorni fa un’azione collettiva e coraggiosa al riguardo del clima pareva proprio alla nostra portata: il movimento degli attivisti per il clima stava accelerando e ottenendo vittorie tangibili nei confronti della realizzazione di nuovi oleodotti e delle trivellazioni nell’Artico; i governi stavano consolidando i loro obiettivi e alcuni stavano perfino iniziando a tener testa alle compagnie di combustibili fossili.

Sembrava quindi prepararsi una pressione sufficiente a farci raggiungere gli obiettivi più importanti della conferenza: un trattato internazionale vincolante e immediatamente esecutivo per ridurre, seppure con difficoltà, le emissioni di anidride carbonica una volta per tutte. Ma il movimento riteneva indispensabile e cruciale continuare a mantenere alta la pressione durante tutto il summit (che si concluderà l’11 dicembre, ndr). A questo punto, riuscirci sarà più difficile.

L’ultima volta che si è arrivati a questo importante slancio a favore del clima era il 2008, quando l’Europa era all’avanguardia nella rivoluzione del settore delle energie rinnovabili e quando Barack Obama promise, accettando la candidatura dei Democratici, di far sì che la sua elezione sarebbe diventata «il momento di svolta nel quale l’aumento del livello dei mari avrebbe iniziato a rallentare e il nostro pianeta a guarire». Poi arrivarono le ripercussioni della crisi finanziaria. E quando alla fine del 2009 i rappresentanti internazionali si sono incontrati a Copenaghen per la Conferenza sul clima, l’attenzione globale era già scivolata dal clima ai bailout delle banche, e l’accordo conclusivo è stato considerato da più parti un disastro. Negli anni seguenti, il sostegno alle energie rinnovabili ha subito un drastico calo in tutta l’Europa meridionale, le ambizioni hanno vacillato, le promesse di finanziare il mondo in via di sviluppo per permettergli di affrontare le conseguenze legate al cambiamento del clima sono praticamente svanite. E non parliamo del fatto che una risposta decisiva alla crisi del clima – basata su ingenti investimenti nelle energie rinnovabili, nell’efficienza energetica e nei sistemi di trasporto pubblico – avrebbe potuto benissimo portare alla creazione di un numero di posti di lavoro sufficiente a fiaccare la logica ormai screditata dell’austerità economica.

Non possiamo permetterci che tutto ciò si ripeta e che questa volta sia il terrore a far cambiare argomento. Al contrario, come ha affermato lo scrittore ed esperto di questioni climatiche Michael T. Klare poche settimane prima degli attentati, «quello di Parigi non dovrebbe essere considerato soltanto un summit sul clima, bensì una conferenza di pace, forse la conferenza di pace più significativa mai convocata nella Storia». Così potrà essere soltanto se l’accordo raggiunto a tale conferenza darà vita a un’economia con livelli sicuri di CO² e in tempi abbastanza rapidi da migliorare tangibilmente la vita dei popoli, qui e adesso.

Finalmente stiamo iniziando a renderci conto che il cambiamento del clima porta alle guerre e alla rovina economica. È giunto il momento di renderci conto anche del fatto che una politica climatica intelligente è di fondamentale importanza per una pace duratura e per la giustizia economica.

traduzione di Anna Bissanti

 

 

Pubblicato su Espresso.repubblica.it il 4 dicembre 2015