5 aspetti scientifici per il referendum sulle trivelle

Trivelle referendum1[Di Gianluca Dotti su Wired.it] Dal rischio di incidenti e disastri ambientali fino al legame con i terremoti e all’impatto sulla biodiversità marina. Un po’ di cifre e dati per prepararsi al voto.

Manca meno di un mese al referendum abrogativo sull’articolo 6 comma 17 del Codice dell’ambiente che regola le trivellazioni nei mari italiani. Al di là delle questioni politiche, amministrative ed economiche, ecco un po’ di cifre e spunti per valutare il quesito referendario da un punto di vista scientifico.

Di quanti pozzi stiamo discutendo?
Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano (dato del Ministero dello sviluppo economico del 31 dicembre 2015), quelle che si trovano entro 12 miglia dalla costa sono 92. Se tra queste si considerano solo quelle effettivamente eroganti, il numero scende ulteriormente a 48, corrispondenti a 21 concessioni. Il quesito posto dal referendum potrà avere un effetto solo su queste ultime, nell’arco di tempo che andrà dalla scadenza delle attuali concessioni all’esaurimento dei bacini estrattivi. Finché le concessioni saranno in vigore, infatti, l’attività estrattiva non potrà essere interrotta.

Il voto del 17 aprile, inoltre, non avrà alcun effetto sulle nuove trivellazioni (la costruzione di piattaforme entro le 12 miglia è vietata dal 2006), sulle altre piattaforme già esistenti situate oltre il limite delle 12 miglia, e nemmeno sui più numerosi impianti estrattivi collocati sulla terraferma.

Si stima che il referendum complessivamente coinvolgerà un’attività estrattiva pari all’1% circa del consumo nazionale di petrolio e al 3% di quello di gas metano. Questo dato, al di là del segnale politico che può derivare dal referendum, è sufficiente per quantificare la marginalità della questione dal punto di vista delle energie rinnovabili e della posizione green del nostro Paese.

Quanto è concreto il rischio di sversamenti?
Il rischio di uno sversamento di petrolio in mare in seguito a un grave incidente in una piattaforma è considerato come la più grande minaccia per l’ambiente e per il settore turistico. La maggior parte dei pozzi italiani, però è dedicata all’estrazione di gas metano, che non presenta questo tipo di rischio dal momento che una eventuale fuga di gas – come quella avvenuta nella piattaforma Paguro al largo di Ravenna negli anni Sessanta – avrebbe effetti molto meno devastanti rispetto a incidenti petroliferi come il famoso Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. A distinguere i pozzi petroliferi italiani da quelli legati ai più terribili disastri ambientali, inoltre, c’è anche l’aspetto non trascurabile della profondità di estrazione. Mentre Deepwater Horizon raggiunge i 1.500 metri di profondità, nel nostro Paese si trivella di solito per alcune decine di metri, raggiungendo al massimo profondità dell’ordine dei 100 metri. Nel remoto caso di un grave incidente petrolifero, poi, il limite convenzionale di 12 miglia (circa 20 chilometri) dalla costa non sarebbe sufficiente a tutelare le nostre coste: il già citato Deepwater Horizon, ad esempio, era situato a 66 chilometri dalle coste della Louisiana.

C’è un legame tra estrazioni e terremoti?
La connessione tra attività di estrazione petrolifera ed eventi sismici è ormai da molti anni dibattuta anche all’interno della comunità scientifica. La conclusione condivisa da molti rapporti tecnici è che la coltivazione di idrocarburi possa al massimo favorire l’innesco di un terremoto, ma non generare dal nulla un evento sismico. L’unico caso italiano a oggi documentato di un legame di causa-effetto tra le trivellazioni e l’attività sismica riguarda il pozzo Costa Molina 2 in Val d’Agri, per il quale è stata provata una sismicità indotta di magnitudo massima pari a due. Complessivamente le scosse sul territorio del nostro Paese sono, a oggi, quantificate in 17 eventi, di cui solo una parte è legata all’estrazione di idrocarburi. Si è trattato in tutti i casi di scosse aventi magnitudo molto bassa, e che rappresentano una frazione irrisoria rispetto alla sismicità naturale del nostro Paese.

A volte, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le perforazioni sono state utili per migliorare la nostra capacità di difenderci dai terremoti. Indagando in profondità alla ricerca degli idrocarburi, infatti, sono state ricavate informazioni sulla struttura del sottosuolo e sulla presenza di faglie attive potenzialmente pericolose, che altrimenti non si sarebbero potute individuare. Tra i risultati scientifici ottenuti, in particolare, c’è uno stretto legame tra faglie attive e giacimenti marini non produttivi, che interpretato al contrario permette di affermare che (spesso) dove un pozzo è molto attivo c’è un minor pericolo che l’attività estrattiva possa innescare un terremoto.

I pozzi petroliferi minacciano la biodiversità marina?
Il problema di come l’attività estrattiva possa influire sull’equilibrio ambientale negli ecosistemi marini è stato affrontato dell’ultimo rapporto di Greenpeace Trivelle fuorilegge, che analizza i dati sulle forme di inquinamento indotte dalla presenza dei pozzi. La posizione di Greenpeace, ovviamente critica nei confronti delle trivellazioni, è sostenuta in particolare dall’evidenza di una scarsa trasparenza nei controlli. Il documento infatti mette in luce che non tutti i dati delle ispezioni sono disponibili, e che anche in quelli resi pubblici si legge che la maggioranza delle piattaforme non rispetta i parametri previsti per legge. O almeno non li rispetta tutti gli anni.

Un’altra posizione critica nei confronti delle trivellazioni sui nostri fondali è quella che deriva dall’applicazione della direttiva europea Marine strategy framework directive (nota anche come Msfd) sul mar Adriatico, attraverso uno studio realizzato da Wwf-Medtrends. Le conclusioni denunciano un possibile aumento, nei prossimi anni, dei problemi legati al danneggiamento fisico dell’integrità dei fondali, al depauperamento della biodiversità sia animale sia vegetale, e all’introduzione di inquinanti che potrebbero avere effetti anche sulla rete alimentare fino ad arrivare all’uomo. Mancano però valutazioni quantitative di questi parametri ambientali, che potrebbero essere utili a quantificare l’impatto reale.

La chiusura degli impianti attivi è tecnicamente sicura?
Ammettendo che il SI vinca al referendum del 17 aprile, la successiva chiusura mineraria dei pozzi per il mancato rinnovo delle concessioni – ossia la sigillatura di un impianto collegato a un giacimento non esaurito – potrebbe essere una questione non banale. In questo caso gli impianti più a rischio sarebbero quelli del metano, per i quali la procedura di chiusura prevede di bloccare fisicamente la fuoriuscita del gas iniettando malta di cemento all’interno dei pozzi. La pressione esercitata dal gas residuo presente all’interno dei giacimenti sicuramente renderebbe più complicate le operazioni di sigillatura, aumentando – almeno in linea di principio – il rischio di incidenti.

 

 

Pubblicato su Wired.it il 23 marzo 2016