Quanto inquina davvero il cloud?

1461765777_cloud[di Marta Tripodi su Wired] Più dati archiviamo su cloud, più i data center hanno fame di energia: cosa possiamo fare noi, cosa possono fare i colossi di Internet.

Webmail che conservano decine di gigabyte di messaggi, piattaforme di archiviazione dei file pesanti, sistemi di backup automatico di foto e video, social network che custodiscono interi anni della nostra vita, librerie di audio e video in streaming con milioni di film e di dischi a disposizione. Tutti servizi che si basano sul cloud, e che ci hanno semplificato la vita non di poco. Purtroppo, però, rischiano di complicarla al pianeta: il numero di dati e utenti cresce ogni giorno, e i data center che supportano la rete consumano sempre più energia.

Il metodo in sé, in realtà, è molto sostenibile: secondo uno studio indipendente del Lawrence Berkeley National Laboratory, sfruttare un sistema cloud anziché mantenere tanti piccoli server aziendali fa risparmiare fino all’87% di energia. Il problema non è la nuvola, ma come viene alimentata.

“Se Internet fosse uno Stato sovrano, sarebbe il sesto consumatore di energia del mondo”, racconta Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima e Energia di Greenpeace Italia.

“In parte proviene da fonti rinnovabili, ma spesso deriva da combustibili fossili e inquinanti”. Come aggravante si stima che entro il 2020, con l’informatizzazione di massa di Cina e India, la quantità di elettricità necessaria al web crescerà del 60%. Per sensibilizzare sul tema, Greenpeace realizza a cadenza regolare il report Clicking Clean, valutando le grandi aziende che gestiscono i data center per trasparenza, impegni presi e promesse mantenute.

Se il fanalino di coda (per ora) è Amazon Web Services, sul podio ci sono Google, Apple e Facebook. Alcune hanno aggiustato il tiro in corsa, come Facebook, che dopo la campagna Unfriend Coal — lanciata da Greenpeace nel 2010 per convincere la società ad abbandonare le centrali a carbone – ha annunciato il passaggio a sistemi più ecologici. Si spera farà lo stesso anche Netflix, che nell’ultimo report è indicata come una compagnia con ampi margini di miglioramento in tema di energia pulita.

Il plauso a Google, invece, è dovuto a politiche all’avanguardia in ogni aspetto, dal risparmio energetico negli uffici fino alla gestione dei cloud: la pagina Google Green le illustra nel dettaglio. “In generale, i nostri data center consumano circa il 50% in meno: ottimizziamo attraverso tecniche avanzate di machine learning”, dice Simona Panseri, direttore Comunicazione e Public Affairs di Google per il sud Europa. Queste tecniche non vengono custodite come segreti aziendali, però. “Organizziamo incontri settoriali aperti a chiunque gestisca data center, per condividere ciò che abbiamo imparato e far sì che l’intera industria abbia un impatto minore sull’ambiente. Più realtà applicano pratiche sostenibili, migliore sarà il risultato per tutti”, prosegue Panseri. Un auspicio condiviso da Greenpeace: “Il peso che i colossi di Internet hanno sui propri fornitori di energia o sui Paesi che li ospitano è enorme, agire è una questione di responsabilità sociale d’impresa”, chiosa Iacoboni. Anche su questo, Google è un passo avanti: negli ultimi anni ha stipulato contratti decennali di fornitura con impianti eolici e fotovoltaici ancora in costruzione, per assicurare che possano essere completati e che tutti ne usufruiscano sul lungo periodo. Di recente, inoltre, la compagnia ha annunciato che l’obiettivo per il 2017 è di passare al 100% di fonti rinnovabili.

Ribaltando la prospettiva, però, cosa può fare l’utente finale? Qualcosa c’è. Nel 2016 la compagnia telefonica francese Orange ha lanciato gli E-Cleaning Days invitando a cancellare mail già lette e a svuotare il cestino, per non sprecare risorse nella conservazione di messaggi inutili. “Illuminare la Tour Eiffel richiede 1589 kWh al giorno: se tutti i dipendenti eliminassero 50 email, con l’energia risparmiata potremmo accenderla un giorno al mese”, recitava il comunicato. Piccoli accorgimenti che forse non fanno la differenza su larga scala, ma che sono pur sempre un ottimo inizio.

Pubblicato il 23/01/2017