Clima e migrazioni, due facce della stessa medaglia

[di Maria Marano per il CDCA] Il 18 dicembre ricorre la Giornata internazionale per i diritti dei migranti, proclamata nel 2000 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una celebrazione che oggi più che mai non può prescindere dalla questione climatica, in considerazione del fatto che i disastri naturali legati ai cambiamenti climatici sono la principale causa delle migrazioni forzate in Paesi spesso già poverissimi e straziati dalla guerra. Secondo quanto riportato dal recente rapporto Oxfam “Forced from Home Climate-fuelled displacement”, presentato in occasione della Conferenza mondiale sul clima di Madrid (COP25), ogni anno 1 persona ogni 2 secondi (circa 20 milioni in totale) è costretta a lasciare la propria casa per trovare rifugio in un posto più sicuro in seguito agli effetti del cambiamento climatico. Nello specifico, cicloni, inondazioni e incendi hanno 7 volte più probabilità di causare migrazioni forzate rispetto a terremoti o eruzioni vulcaniche e 3 volte di più rispetto a guerre e conflitti. Dati preoccupanti negli stessi giorni sono arrivati dalla Ong tedesca Germanwatch, che nello studio annuale Global Climate Risk Index 2019 ha confermato che circa cinquecentomila persone sono morte negli ultimi 20 anni a causa di oltre dodicimila eventi meteorologici estremi. Tra i Paesi più colpiti: Porto Rico, Myanmar e Haiti.

Mentre le file dei migranti climatici si ingrossano, l’Organizzazione meteorologica mondiale lancia l’allarme che le emissioni di CO2 continuano ad aumentare. Un’evidenza del fatto che in futuro la questione migratoria potrebbe avere una portata sempre maggiore.

Difronte all’amplificarsi delle disuguaglianze tra i Paesi del Nord e del Sud del mondo a causa del cambiamento climatico, a Madrid i Paesi più colpiti, sostenuti dalla società civile e da numerose associazioni, hanno fatto pressione affinché i diritti umani e la questione delle migrazioni fossero presi in considerazione nell’implementazione dell’Accordo di Parigi, operativo a partire dal 2020. I risultati ancora una volta sono stati al ribasso. Alla fine del negoziato a destare particolare delusione è stata l’incapacità di trovare un accordo sulla regolamentazione del mercato del carbonio (Art. 6 dell’Accordo di Parigi). Argomento rimandato al prossimo anno. Ciò rinvia anche la questione di come tutelare le comunità locali a fronte di progetti di compensazione delle emissioni che in molti casi non hanno considerato gli impatti sociali sulle comunità locali arrecando loro danni. Ne sono degli esempi l’idroelettrico e le monoculture per la produzione di biocarburanti.

Tra i tanti flop dalle Filippine un segnale importante nella lotta per la giustizia climatica

Nel corso della COP25 la Commissione sui diritti umani delle Filippine ha annunciato che circa 50 società dell’industria dei combustibili fossili – tra cui Eni, Shell e Chevron – potrebbero essere considerate legalmente ed eticamente responsabili per la violazione dei diritti umani nei confronti degli abitanti delle Filippine colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici, in quanto responsabili delle emissioni di gas climalteranti. L’indagine è stata avviata nel 2015 in seguito a una petizione presentata da alcuni sopravvissuti ai disastri climatici, che avevano colpito pesantemente il Paese, insieme a diversi rappresentanti della società civile. Una dichiarazione che potrebbe aprire la strada a ricorsi giudiziari e alla richiesta di risarcimento dei danni alle multinazionali del petrolio.

L’ennesima bolla di sapone

Visti gli esiti della COP25 è evidente che un nuovo paradigma economico, ambientale e sociale, necessario per ristabilire l’ordine naturale delle cose, tarda ad arrivare. Gli interessi dei Paesi più inquinanti, come Stati Uniti, Cina, India, Australia, Brasile, Arabia Saudita, hanno ancora una volta hanno prevalso su questioni urgenti per la salvaguardia del Pianeta e per la sopravvivenza di tutta l’umanità.