Beni comuni e usi civici: un rapporto da consolidare

benicomuni3[di Fabio Parascandolo su ecologiapolitica.orgIn quanto commons, i beni comuni naturali costituiscono la ricchezza ecologica su cui le popolazioni rurali, specialmente nel Sud del mondo, sanno – o meglio sperano – di poter contare per la soddisfazione dei loro bisogni di baseii. Ma in quanto entità relazionali, i beni comuni possono essere anche definiti come reti civiche, e come «un repertorio di pratiche di cittadinanza attiva» (Cacciari, Carestiato, Passeri 2012: 10). Si può dire quindi che «i beni comuni, prima di essere cose e servizi, sono ciò che una comunità, un gruppo sociale, una popolazione, indica come essenziale, indispensabile e insostituibile per la dignità del proprio vivere» (ibidem).

Questo approccio denominativo (cfr. Turco 1988, pp. 76 ss.) ben si addice anche ai commons naturali, beni indispensabili alla riproduzione della vita sul pianeta e quindi anche della vita umana. Le indagini storico-politologiche e geo-antropologiche confermano che quando sono effettuate con assiduità e in base a regole appropriate, le pratiche civiche riescono a “entrare in risonanza” con i commons extra-umani (biotici e abiotici). La rigenerazione dei patrimoni naturali territoriali può avvenire infatti a patto di un uso ragionevole e non smodato degli stessi; un uso che non ne pregiudichi la rinnovabilità, preservandoli anche per le generazioni future.

Prendiamo il caso dell’agricoltura, la più capillare e pervasiva attività di interazione sociale con la natura extra-umana sulle terre emerse del globo. Numerosi studi (cito per tutti Altieri 1995) hanno dimostrato che nelle sue forme “tradizionali”, l’agricoltura contadina e familiare di piccola scala riesce a mantenere vive e attive le funzioni idrogeologiche, microclimatiche, ecologiche e paesaggistiche dei sistemi ambientali, preservando quindi le basi biofisiche necessarie alla riproduzione della biodiversità e della stessa specie umana. Ma la storia ecologica degli ultimi secoli e in particolare del secolo XX ci ha dimostrato che invece di produrre beni d’uso “con la terra” e con i commons naturali, le tecnologie agro-industriali convenzionali hanno prodotto e tuttora producono beni di scambio “contro la terra”, cioè contro la biosfera. All’accumulazione di impatti ecologici negativi provocati dalle ristrutturazioni agroindustriali ha fatto seguito la compromissione (cioè il depauperamento o il degrado da fattori inquinanti) dei beni comuni naturali.

Le problematiche generate dall’irrompere planetario dell’economia “estrattiva” delle risorse rinnovabili (Navdanya International, 2015) risultano fortemente acuite dalle radicali trasformazioni intervenute nei sistemi di approvvigionamento delle collettività umane. Mi riferisco ai processi di sganciamento ecologico dei contesti territoriali in via di modernizzazione, cioè allo smantellamento di forme localmente radicate ed ecologicamente stabili di accesso alla sussistenza. Se il cibo e altre risorse vitali non giungono più nei centri abitati dai contesti territoriali di prossimità o lo fanno solo in minima parte, ciò è segno che la provenienza ecologica dei flussi di risorse “assorbiti” dagli insediamenti non coincide più con la loro localizzazione geografica (Wackernagel, Rees 1996, p. 23; Saragosa 2001, p. 74). Gli attuali processi reticolari di allungamento (anche di migliaia di km) e di ristrutturazione globale delle filiere di trasformazione e distribuzione delle commodity alimentari ed agro-energetiche sono stati resi possibili dall’applicazione intensiva di tecnologie fortemente entropiche e dipendenti dall’impiego di fonti non rinnovabili di energia. Si tratta, a conti fatti, di modalità insostenibili di riorganizzazione dei contesti socio-ecologici…(segue scaricando il documento integrale qui)

Pubblicato a novembre 2016, numero 11