Carbone insanguinato: la rotta segreta dell’altro oro nero

Miniere carbone Colombia1[Di Paolo Biondani su Espresso.repubblica.it] Dalle miniere colombiane alle centrali italiane: un’inchiesta ricostruisce il viaggio del combustibile. Tra squadroni della morte, massacri, villaggi inquinati, appalti miliardari, paradisi fiscali e società anonime.

Sangue, soldi, veleni e misteri. C’è una scia nera che parte dal Sudamerica, attraversa l’Atlantico, entra nei porti europei e arriva in Italia. È la via del carbone, che porta nelle nostre centrali il più inquinante dei combustibili fossili. Una rotta che passa dall’inferno al paradiso: fiscale, naturalmente. Dietro agli enormi consumi di energia dei Paesi industrializzati, dietro ai nostri gesti quotidiani come accendere la luce, c’è una storia piena di enigmi e di contraddizioni. La povertà estrema delle popolazioni delle miniere. La grande ricchezza delle multinazionali. E i tesori anonimi delle società offshore.

Dove e come viene estratto il carbone bruciato in Italia? Chi si arricchisce con questo “oro nero”, che fa concorrenza al petrolio e all’energia pulita? A rispondere con fatti, documenti e testimonianze videoregistrate è un rapporto dell’organizzazione internazionale Re:Common, che “l’Espresso” pubblica in esclusiva per l’Italia. I ricercatori di questa ong, specializzata in inchieste economiche globali, hanno ricostruito l’intera rotta del carbone, dalle miniere ai treni merci, dai porti fino alle centrali di Civitavecchia e Brindisi, viaggiando per mesi, in incognito, tra l’Europa e la Colombia, che è uno dei maggiori esportatori mondiali. Una nazione che sta cercando di uscire da una guerra civile durata mezzo secolo tra guerriglieri di sinistra, esercito e paramilitari di destra, che ha provocato oltre 200 mila vittime civili.

Dalla Colombia arriva circa il 20 per cento del carbone importato in Italia. Dalle miniere in Colombia alle centrali di Brindisi e Civitavecchia: un’inchiesta internazionale svela le rotte misteriose del combustibile più contestato. Tra squadroni della morte, società offshore, paradisi fiscali, multinazionali miliardarie e popolazioni poverissime. Le miniere colombiane, in origine pubbliche, dagli anni Novanta sono controllate da una mezza dozzina di multinazionali, tra cui spiccano l’americana Drummond e la svizzera Glencore. La prima, fondata in Alabama, sfrutta le più ricche miniere a cielo aperto del Cesàr, una regione devastata dai gruppi armati. Nei villaggi visitati dai ricercatori le famiglie vivono in baracche di lamiera, bevono acqua scura e accusano le multinazionali di averle sfollate per un pugno di dollari. Solo in quest’area i paramilitari hanno ucciso oltre 3.300 civili, sterminando i sindacalisti dei minatori. La Drummond ha sempre respinto le accuse di aver utilizzato o finanziato gli squadristi. Altre aziende hanno invece ammesso di aver pagato, dichiarandosi ricattate dai paramilitari: in particolare la Chiquita già nel 2007 ha risarcito 25 milioni di dollari alla Colombia. Ora le confessioni dei killer, raccolte grazie alla legge «giustizia e pace», stanno riaprendo le indagini su molti delitti eccellenti.

I ricercatori allegano al rapporto la confessione videoregistrata di “El Tigre”, il capo dei paramilitari nella regione delle miniere. Fisico possente, mascella da duro, il detenuto ammette «circa 2700 omicidi», per cui è già stato condannato. E aggiunge che il suo squadrone della morte sarebbe stato finanziato da un dirigente colombiano della Drummond, dietro lo schermo della ditta che gestiva le mense. Il suo titolare, Blanco Maya, sta già scontando 38 anni di carcere per gli omicidi di due sindacalisti simbolo, Valmore Locarno e Victor Orcasita, assassinati nel 2001 dai paramilitari del “Tigre”. Anche Maya è stato videoregistrato mentre confessa i delitti e accusa la filiale colombiana della multinazionale di aver finanziato i paramilitari con una tangente ricavata gonfiando i prezzi delle mense. La Drummond ha respinto anche le nuove accuse.

Le violenze, la miseria, la cappa di polveri nere delle miniere restano alle spalle, quando il carbone parte sulle ferrovie private delle multinazionali che attraversano la Colombia per centinaia di chilometri, fino al mare. A Port Drummond, tra i moli di cemento sorvegliati dall’esercito, il combustibile nero viene caricato su grandi navi, due alla volta, che salpano verso l’Europa. In Italia il maggior acquirente è l’Enel. Contattato da “l’Espresso”, il gruppo italiano precisa di utilizzare sempre meno carbone: oggi meno del 10 per cento arriva dalla Colombia. A complicare il viaggio c’è un mistero offshore. Secondo i dati doganali colombiani, il 95 per cento del carbone diretto in Italia è venduto da una società, Interocean Coal Sales Ldc, con sede alle isole Cayman. Dai registri di questo paradiso fiscale risulta solo che la offshore è attiva dal 1999, ma i nomi dei proprietari non sono pubblici. I ricercatori spiegano che il fortunato titolare della società esotica, in pratica, compra carbone colombiano al valore netto, lo rivende in Europa a prezzi molto più alti e trattiene la differenza (fino al 50 per cento) alle Cayman, dove non esistono tasse sui profitti. Dal 2009 al 2015 quella offshore ha trattato otto milioni di tonnellate di carbone diretto in Italia. Mentre solo 150 mila tonnellate sono state intermediate da una società quasi omonima, Interocean Coal Sales Llc, fondata in Alabama dalla Drummond. A parte la coincidenza del nome, non c’è alcun legame dimostrabile tra la multinazionale e la offshore: il nome dei suoi azionisti è un segreto delle Cayman.

Nella via del carbone c’è un altro mistero offshore. Puerto Nuevo è lo scalo utilizzato dal colosso svizzero Prodeco-Glencore. I colombiani lo chiamano “il porto degli italiani”, perché è stato realizzato dalla nostra Saipem con la controllata Petrex: un’opera da 528 milioni di dollari. È la stessa Saipem, negli atti su Puerto Nuevo, a rivelare un fatto curioso: il maxi-contratto è stato firmato non dalla Glencore, ma da una certa Atlas Investment Ltd, identificata dai ricercatori con una offshore creata nel 2007 alle Bermuda con mille dollari di capitale. Nell’aprile 2013, mentre apriva Puerto Nuevo, Atlas ha chiuso ai Caraibi per trasferirsi in Svizzera: secondo i ricercatori, allo stesso indirizzo della Glencore. Potrebbe però trattarsi di mera coincidenza: la proprietà della offshore non è conoscibile. Fatto sta che l’appalto da mezzo miliardo risulta gestito da una società anonima da mille dollari.

Nessuna autorità ha mai indagato per scoprire a chi appartengono le offshore dei tesori del carbone. Inutili anche le cause intentate in Alabama a nome dei colombiani uccisi: la Drummond è sempre stata assolta per insufficienza di prove o perché eventuali reati non sono di competenza americana. Quindi ha contro-denunciato tutti. I legali delle vittime avevano raccolto fondi per proteggere i parenti dei paramilitari che stanno confessando (come succede in Italia per i pentiti di mafia): ora la multinazionale li accusa di «corruzione indiretta di testimoni».

Dunque in Alabama, oggi, gli unici indagati sono i difensori delle vittime e i loro collaboratori. In Colombia invece il vento è cambiato: il 25 maggio 2015 è stato arrestato Alfredo Araujo Castro, dirigente locale della Drummond, per gli omicidi dei due sindacalisti-simbolo. Il manager appartiene alla più potente famiglia della regione: è ancora sotto indagine, ma è già stato scarcerato. In Italia l’Enel ha creato, con altre aziende europee, l’associazione Bettercoal, che «promuove la sostenibilità dell’industria estrattiva» e nel 2014-2015 ha controllato le miniere Drummond, dove «non sono emerse criticità di rilievo» per il presente. L’Enel però «continua a monitorare».

 

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Pubblicato su Espresso.repubblica.it il 29 aprile 2016