Cibo, cosa non ha detto l’Expo

cibo[Di Filippo Schillaci da Comune-info.net] È finito ottobre e con esso si è concluso l’Expo milanese dedicato all’alimentazione. Anche chi non è andato a visitarlo ma conosce il mondo in cui vive può avere un’idea di quale quadro della realtà alimentare mondiale esso possa aver dato; proviamo qui invece a tracciare un quadro basato non sulle esigenze di facciata ma sull’analisi della realtà alimentare che ci riguarda da vicino, proviamo cioè a parlare di ciò che l’Expo certamente non ci ha detto (leggi anche Dopo l’Expo).

Se a questo punto ci si aspetta che io parli di accordi internazionali, di politiche agrarie, di multinazionali, che io faccia cioè dei discorsi sui massimi sistemi, temo che si rimarrà delusi. Ho letto di recente un articolo sui cambiamenti climatici: preciso, esatto, denso di dati e fatti assolutamente convincenti. Ma non mi è piaciuto. Non mi è piaciuto perché non ci ho trovato nessuna traccia di me, di te, di noi. Tutta l’attenzione di chi l’ha scritto era concentrata su “loro” che hanno deciso di incrementare le estrazioni di carbone, di aprire nuovi impianti, nuove centrali… loro, sempre e solo loro, ma chi sono “loro”? Sembra, nel leggere simili articoli, che quanto sta avvenendo sulla Terra sia opera di entità distanti, astratte, inconoscibili e irraggiungibili. Immense e trascendenti. Di fronte a una simile visione delle cose il fatalismo, la resa, è d’obbligo. E se invece colui che fa tutte queste cose fossi io? E se fosse con ciò nelle mie mani il potere di cambiarle? Ecco, è da questa considerazione che credo sia giusto partire. In altre parole dal concetto di responsabilità personale. Dunque tutto dipende da me, da te, da noi? Se non tutto, molto. Perché se è vero che il cibo è un bene di primissima necessità, se è vero che sedersi a tavola è un atto necessario, è anche vero che c’è modo e modo di farlo. Ci si può muovere sulla Terra come un tirannosauro imbizzarrito o con la leggerezza di una farfalla, e questo lo sappiamo tutti. Si corre però un rischio, quello di muoversi sulla Terra come un tirannosauro imbizzarrito credendo sinceramente di muoversi con la leggerezza di una farfalla e questa è la condizione più insidiosa. Per non cadere in questa trappola un prerequisito fondamentale è mettere ben a fuoco la realtà che ci circonda. È ciò che cercheremo di fare nelle righe che seguono.

 

Qui e adesso

E poniamoci innanzitutto la domanda di base: quanto pesa sul pianeta il contenuto del nostro piatto? Una prima idea può darcela uno studio promosso alcuni anni fa dalla Commissione europea secondo cui al settore agroalimentare sono da imputare il 31 per cento delle emissioni di gas serra in Europa, quasi un terzo.

Per confronto, il settore abitativo contribuisce appena per il 24 per cento e quello dei trasporti per il 18 per cento. Il nostro piatto pesa tanto dunque, in realtà più di qualsiasi altra cosa. Ciò è dovuto al sommarsi di due degenerazioni amplificatesi enormemente durante il corso del XX secolo: l’industrializzazione dell’agricoltura e la zootecnia.

 

Agricoltura industriale

Parliamo della prima. «Una cosa deve essere ben chiara» mi scrisse qualche anno fa Giannozzo Pucci, direttore dell’Ecologist italiano, «l’agricoltura oggi è un’industria a cielo aperto, del tutto indistinguibile dall’industria propriamente detta». Ciò porta con sé numerose conseguenze, la più rilevante delle quali è la sua natura fortemente energivora che la rende, così com’è, semplicemente incapace di durare perché essa è diventata, come ogni altra attività industriale, fortemente dipendente dal petrolio. Se confrontiamo con il prezzo del petrolio i prezzi dei principali prodotti agricoli, quali grano, mais e soia negli ultimi decenni ci accorgiamo che essi seguono fedelmente l’andamento.

Il fatto che un’attività di primaria importanza come la produzione di cibo sia stata resa dipendente da una risorsa non rinnovabile potrà avere effetti fortemente traumatici sul sistema mondiale dal momento in cui questa risorsa cesserà di essere disponibile. E questo, per il petrolio, sta per avvenire. Ciò non significa che sta per esaurirsi poiché il momento in cui un sistema basato su una risorsa non rinnovabile entra in crisi non è quello in cui essa si esaurisce bensì quello in cui l’attività produttiva raggiunge il picco, ovvero non riesce più ad aumentare e comincia anzi a diminuire. Quel momento, per il petrolio, è previsto a breve termine. Come ben sappiamo un sistema reagisce al venir meno della risorsa su cui si basa non modificando se stesso ma cercando dei sostituti che possano consentirgli di procedere immutato. Nel caso del petrolio il sostituto è costituito dai biocarburanti ovvero da carburanti ricavati da prodotti agricoli quali cereali e soia. C’è però un problema: la produzione di biocarburanti in quantità adeguate a soddisfare una sensibile fetta di fabbisogno dei paesi industrializzati richiede enormi estensioni di terreno agricolo. I biocarburanti rischiano così in un futuro molto prossimo di diventare diretti concorrenti della produzione di cibo con ovvio aumento dei prezzi di quest’ultimo, possiamo facilmente immaginare con quali conseguenze per quella vasta parte dell’umanità per le cui risorse economiche già oggi il cibo è al limite dell’accessibilità.

 

Zootecnia

L’irruzione dei biocarburanti tuttavia non sarà altro che il colpo finale dato a una situazione che già al presente è fortemente iniqua. Solo il 40 per cento della produzione mondiale di cereali è infatti oggi destinata all’alimentazione umana mentre il 34 per cento è deviato verso gli allevamenti. Entriamo con ciò nella seconda degenerazione: l’espansione abnorme, su scala mondiale, del settore zootecnico. Ma dobbiamo subito chiarire una differenza fondamentale e troppo spesso taciuta. Mentre in agricoltura la degenerazione che la rende insostenibile consiste nella sua versione industrializzata, la zootecnia è insostenibile in tutte le sue forme, dalle più tradizionali alle più intensive. È errato pertanto parlare dell’impatto ambientale “dell’industria” zootecnica come se le forme non industriali di essa fossero escluse dal discorso. L’industrializzazione dell’allevamento oltre tutto ha riguardato in gran parte i monogastrici (polli e suini soprattutto) mentre l’allevamento dei ruminanti, che è il più invasivo, è ancora in gran parte del mondo basato sulla terra. Parlando ancora di emissioni di gas serra, che oggi costituiscono il principale problema planetario (qui il dossier verso la conferenza sul clima di Parigia, Cop21, Il bivio di Parigi, ndr), la zootecnia è responsabile di quasi un quinto delle emissioni mondiali e il 70 per cento di tali emissioni è dovuto agli allevamenti basati sulla terra, dunque non industriali, mentre il 91 per cento è scarsamente dipendente dal tipo di allevamento. Il punto è che il processo di conversione delle proteine vegetali in proteine animali è intrinsecamente dissipativo: avviene per sua natura con rendimenti infimi e non c’è nulla da fare.

Questo settore produttivo, che già in epoca storica aveva cominciato a produrre i suoi deleteri effetti ambientali, ha subìto una notevole espansione a partire dalla fine dell’ultima guerra mondiale quando il consumo di cibi di origine animale nei paesi industrializzati ha conosciuto un’impennata colossale. In Italia si è passati da una media di 20 Kg di carne all’anno a persona all’assurda quantità di 90 Kg, inaccettabile anche da un punto di vista nutrizionale. Per produrre tutto ciò occorrono, come per i biocarburanti, quantità enormi di terreno da destinare a prato o pascolo nel caso dell’allevamento estensivo, a produzione industriale di mangimi nel caso di quello intensivo. Ma in ogni caso quantità enormi, tanto che la zootecnia oggi occupa circa un terzo delle terre emerse ed è con ciò l’attività più invasiva praticata dall’uomo. Essa è fra l’altro la prima causa di distruzione delle foreste primarie; l’allevamento di bovini è da solo responsabile per due terzi della deforestazione dell’Amazzonia.

 

Pesca e acquacoltura

Ciò che la zootecnia è sulla terra, la pesca e l’acquacoltura lo sono in mare. E anch’esse lo sono in tutte le loro forme, non solo nella loro recente evoluzione industriale. Già agli inizi del Novecento si lanciavano allarmi sul depauperamento delle risorse ittiche provocato dalla pesca a strascico che allora veniva praticata con mezzi nulla più che artigianali, del tutto irrisori rispetto a quelli attuali. Ma già quei mezzi erano sufficienti a provocare danni rilevanti. La pesca a strascico è l’equivalente in mare di ciò che la deforestazione è sulla terra e la situazione nei mari è anzi ancora più grave. I metodi di pesca sono oltre tutto essenzialmente non selettivi; ciò significa che per ogni pesce “buono” ne vengono pescati molti altri di nessun valore alimentare o commerciale che vengono poi ributati in mare, ovviamente morti, con esiti gravi sugli equilibri delle catene alimentari marine. L’acquacoltura non ha migliorato la situazione perché gran parte delle specie marine allevabili sono carnivore e il loro cibo viene pescato in mare, naturalmente con i metodi sopra detti.

 

Un’altra storia

Chiarito che nel presente poco o nulla si salva, proviamo ora a definire uno scenario alternativo che sia al contrario equo e sostenibile. Per ben impostare il nostro problema dobbiamo innanzi tutto identificare le variabili su cui agire, che nel nostro caso sono tre:
Quali cibi produrre? In che modo produrli? In che modo farli giungere da chi li produce a chi li consuma? Ma innanzitutto, queste tre variabili hanno tutte la medesima importanza o forse qualcuna lo è di più, qualcun’altra di meno?

Cominciamo dalla terza che poi, nell’immaginario alternativo, coincide col mito del “cibo a Km zero”. È davvero così importante? Se analizziamo le emissioni di gas serra dovute ai vari anelli della catena alimentare otteniamo questi dati:
– Produzione: 83%
– Trasporto materie prime: 11%
– Trasporto finale: 4%

Gran parte dell’impatto ambientale è dunque concentrato nella fase di produzione mentre il trasporto finale ha un ruolo pressoché irrisorio, questo perché la maggior parte dei tragitti vengono percorsi su mezzi a basso impatto quali navi e treni. Concentrare la propria attenzione sul cibo “a Km zero” significa dunque abbattere drasticamente quel 4% di emissioni ma lasciare indisturbato tutto il resto. Significa insomma mancare clamorosamente il bersaglio. In realtà rivolgersi alla produzione “di prossimità” non è sbagliato: è giusto per favorire un rapporto diretto con i produttori, dunque un ruolo attivo delle comunità, è giusto per favorire una rete produttiva a maglie fini, dunque basata sulle piccole aziende; è giusto dunque per ragioni di natura sociale. È però sbagliata l’equazione “locale uguale sostenibile”. Se il cibo è la carne o il formaggio esso è insostenibile a priori, anche se prodotto dietro l’angolo di casa. Distribuzione “di prossimità” è però cosa diversa dal “cibo a Km zero” perché significa rivolgersi al produttore più vicino che rispetta certi criteri di compatibilità ambientale e sociale anche se nel caso di certi prodotti, come gli agrumi o il caffè, la sua distanza può essere tale da non potersi considerare locale. Questa concezione è fra l’altro compatibile con il commercio equo e solidale che copre a volte distanze intercontinentali.

Facciamo ora un confronto. Immaginiamo una famiglia di riferimento che effettua i propri consumi alimentari in maniera del tutto convenzionale. A tali consumi corrisponderà una certa quantità di emissioni di gas serra. Immaginiamo ora altre due famiglie. La prima effettua gli stessi consumi della precedente ma ricorrendo solo a cibo locale. In tal modo si avrà un certo abbattimento delle emissioni. La seconda effettua consumi in quantità equivalente alla famiglia di riferimento ma ricorrendo solo a cibi vegetali. Anche in questo caso ci sarà un certo abbattimento di emissioni e sarà otto volte superiore a quello della famiglia “localista”. Abbiamo con ciò stabilito una priorità fra due delle nostre variabili. Rimane ora da metterle in relazione alla terza: la modalità di produzione.

Facciamo riferimento al grafico seguente in cui la dieta “normale” seguita oggi in Italia viene messa a confronto con tre diverse diete bilanciate: vegana, vegetariana e onnivora (che differisce dalla “normale” per essere appunto bilanciata e dunque contenere fra l’altro una quantità nettamente inferiore di cibi di origine animale).
Ciascuna delle diete bilanciate viene considerata in due versioni: con produzione industriale e biologica. Vediamo che l’impatto maggiore è per la dieta “normale” e che l’impatto diminuisce man mano che si passa a diete con sempre minor apporto di cibi animali. Inoltre per ciascun tipo di dieta, l’impatto minore si ha nella versione biologica. Le diete che rientrano nella fascia di piena sostenibilità sono la vegetariana nella sola versione biologica e la vegana. La variabile che guida la diminuzione dell’impatto ambientale è dunque quella delle scelte alimentari, da orientare verso i cibi vegetali; segue la modalità di produzione, da orientare verso il metodo biologico e infine, per quanto detto prima, la distribuzione che è preferibile sia “di prossimità”.

grafico

Un punto importante infine è che la produzione di cibo si presta più di qualsiasi altro settore alla realizzazione di una rete produttiva a maglie fini che parta da forme di autoproduzione sia individuali che collettiva (gli orti sociali) e non giunga oltre la dimensione della piccola e media azienda. È uno scenario diffuso, in cui fra l’altro tende a sfumare la divisione, nettissima nel modello industriale, fra produttore e consumatore e in cui si rivaluta il ruolo della relazione comunitaria fra le persone.

Questa è dunque nell’immediato presente, per l’Italia e per l’insieme dei paesi industrializzati, la vera “sfida” (se vogliamo usare un termine caro agli organizzatori dell’Expo e, a quanto pare, di questi tempi molto “trendly”) da vincere: la costruzione di un modello alimentare basato sui cibi vegetali prodotti biologicamente e su piccola scala. Quanto alle “sfide” che quelli dell’Expo affermano di aver vinto, non so quali siano e non credo che sia importante saperlo.

 

Fonti:
– AA.VV., Environmental Impact of Products. Analysis of the life cycle environmental impacts related to the final consumption of the EU-25, European Commission, 2006.
– AAVV, Livestock’s long shadow, FAO, 2006.
– C. L. Weber e H. S. Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environmental Science & Technology, Vol. 42, No. 10, 2008.
– M. Tettamanti, L. Baroni e altri, Evaluating the environmental impact of various dietary patterns combined with different food production systems, European Journal of Clinical Nutrition, ottobre 2006.

* Filippo Schillaci è tecnico informatico part time presso la seconda università di Roma, dove si è occupato anche di fotografia e linguaggio cinematografico. Dal diversi anni vive in campagna, in provincia di Roma, affiancando alle proprie attività la coltivazione biologica. È autore di articoli e libri, tra cui “Vivere la decrescita”, “Un pianeta a tavola” (Ed. Decrescita felice), “Caccia all’uomo. Quello che è indispensabile sapere sui cacciatori” (Stampa alternativa)

Pubblicato su Comune-info.net il 7 novembre 2015