Cop 22 a Marrakech: nuove strade per il cambiamento climatico

[di Grazia Francescato su ecologiapolitica.org] Spenti i riflettori su Marrakech, assorbita la botta del passo indietro di Trump, la lotta al cambiamento climatico infila nuove strade, spesso sorprendenti. Il “buco nero” della politica, incapace di tener testa al galoppo vertiginoso della COP22 (anche se tutti i paesi hanno riaffermato la loro fedeltà all’accordo di Parigi, “alla faccia” del neoeletto tycoon statunitense), viene riempito, parzialmente ma in dosi non trascurabili, da altri major player: la parte più innovativa della business community, la società civile, le reti dei poteri locali e dei sistemi urbani.
Alla COP 22 appena conclusa, ha destato scalpore l’appello di 360 manager e imprenditori (non pochi tra i top 500 elencati dalla rivista Fortune) ai politici americani sulla urgenza di rispettare l’accordo di Parigi. A riprova del fatto che, come hanno rilevato numerosi osservatori, la parola d’ordine negli ambiti più illuminati dell’economia sia ormai “divestment”, l’addio sia pur graduale ai combustibili fossili e il perseguimento di una società low carbon, contrassegnata da modelli più sostenibili di produzione e consumo.
Quanto alla società civile, il motto condiviso è “We will move forward”, testimoniato dalla simbolica foto di chiusura organizzata da Greenpeace, con migliaia di attivisti e NGOs riuniti intorno allo striscione che invitava appunto ad andare avanti senza esitazioni.
E qui si può dire, ripescando un vetusto slogan sessantottino, che davvero la fantasia è al potere. Prendiamo la gamma di azioni popolari per la giustizia climatica, nuovo trend che si sta affermando in tutto il mondo: movimenti, gruppi, organizzazioni sociali stanno utilizzando strumenti giudiziari per obbligare gli stati ad agire contro il cambiamento climatico. Già si registrano i primi successi in Olanda, Pakistan e Usa, mentre analoghi percorsi stanno prendendo piede anche in Francia e Norvegia.
Un esempio per tutti: nel 2015 ventun giovani tra gli otto e i diciannove anni, provenienti da diversi stati degli Usa, hanno intentato causa, insieme all’organizzazione Our Children Trust, contro il governo federale presso la corte dell’Oregon per violazione dei diritti costituzionali dei ragazzi alla vita, alle libertà e al godimento dei beni comuni. Il 10 ottobre 2016 la giudice Ann Aiken ha respinto il ricorso del governo che voleva annullare la causa, aprendo la strada a un’eventuale ingiunzione che obblighi le politiche governative a implementare una drastica riduzione dei gas serra.
“Questi strumenti di pressione e di battaglia popolare potrebbero essere messi in atto anche in altri paesi, perché le decisioni prese da questi tribunali nazionali si basano sul diritto relativo alla responsabilità civile e questo tipo di giurisprudenza esiste nella maggior parte delle nazioni” precisa Marica Di Pierri, che guida l’Associazione A sud e il CDCA (Centro Documentazione Conflitti Ambientali).
Non a caso Robert Costanza, professore di Public Policy dell’Australian National University, ha lanciato l’idea di un “Atmospheric Trust”, una campagna planetaria denominata “We claim the sky” (Rivendichiamo il cielo) che ipotizza l’invio, da parte della società civile e dei paesi più vulnerabili, di una vera e propria fattura agli inquinatori più incalliti. Costanza ha presentato la sua inedita proposta a un convegno internazionale dal significativo titolo “Climate Savers – People building Future” (I salvatori del clima – La gente costruisce il futuro”) che si è svolto ai primi di novembre a Frosinone, organizzato da Greenaccord, Associazione per la Salvaguardia del Creato vicina alle posizioni di papa Bergoglio e dedita in particolare alla formazione del sistema dei media sui temi ambientali.
Centinaia le esperienze, le testimonianze e le proposte firmate da esponenti di organizzazioni e movimenti che in tutto il mondo si stanno mobilitando per fare quello che ancora i governi non fanno: uscire dall’era dei fossili, difendere gli ecosistemi violati e di diritti delle comunità locali, costruire realtà sostenibili a livello locale e globale, tramite reti di reti.
Prendiamo il caso della Black Mesa Water Coalition, fondata nel 2001 in Arizona dalla comunità Navajo, in lotta contro la Peabody Coal Company, rea di inquinare le loro terre ancestrali e di rubare le risorse dei nativi (consumando ben tre milioni di galloni d’acqua al giorno) per le sue attività estrattive, senza alcun beneficio per gli indigeni e i residenti. “Ma non ci siamo limitati a combattere contro l’estrazione del carbone e a difendere i nostri diritti” fa presente Wahleah Johns, giovane leader indigena, lunghi capelli neri, voce gentile ma grinta da vendere “Abbiamo anche voluto dare un segnale che la transizione dai fossili alle rinnovabili è possibili e abbiamo varato progetti solari e eolici, capaci anche di dare posti di lavoro e garantire l’autosufficienza della nostra comunità”.
“Si può ormai parlare di una era e propria rete di sentinelle del clima che abbraccia tutti i continenti” osserva Andrea Masullo, Direttore Scientifco di Greenaccord “A questa si affianca un’analoga rete di poteri locali che hanno deciso di non aspettare i troppo lenti governi nazionali e di procedere invece a passo spedito verso la decarbonizzazione e la sostenibilità. Come il Covenant of Mayors, un patto internazionale tra sindaci che riunisce 6500 città del mondo, decise a perseguire entro il 2030 un taglio del 40% della Co2.” Di sicuro non basta, ma sono comunque segnali lampanti che, con buona pace di Trump e negazionisti assortiti, la strada dell’addio ad un’economia e una cultura ‘fossili’ è irreversibile.

Pubblicato a novembre 2016, numero 11