Dopo Doha: quanto resisteranno ancora gli stati petroliferi?

Calo prezzi petrolio1[Di Matteo Villa su Ispionline.it] Si è detto praticamente tutto sulle conseguenze del fallimento del vertice di Doha, l’ennesimo incontro tra paesi esportatori di petrolio, dimostratosi incapace di far convergere il consenso verso una risposta coordinata alla crisi dei prezzi. Il vertice si è tenuto in un contesto che ci è ormai noto, e che nel recente Rapporto ISPI abbiamo deciso di chiamare “età dell’abbondanza”.

Da ormai quasi due anni, infatti, i mercati mondiali hanno preso consapevolezza dell’eccesso di offerta di petrolio, causato in larga misura dalla rivoluzione shale negli Stati Uniti, e i prezzi del greggio sono crollati dai circa 115 dollari al barile a giugno 2014 ai 30 del gennaio di quest’anno. Ma età dell’abbondanza significa per molti età delle ristrettezze. Tutti quei paesi che si finanziano grazie alla vendita all’estero di petrolio e gas naturale, i cosiddetti rentier state, si trovano oggi a fare i conti con uno scenario di prezzi bassi che ci riporta indietro a un periodo neanche troppo lontano, ma che quasi tutti credevamo di esserci lasciati alle spalle: sono i diciotto anni tra il 1986 e il 2003, quelli in cui i prezzi reali del barile (attualizzati al 2015) non avevano mai superato i 45 dollari. Se davvero un simile ciclo di prezzi bassi si fosse riaperto, la sostenibilità delle finanze pubbliche dei paesi rentier tornerebbe in discussione. A meno di due anni dall’inizio della crisi, infatti, allo scopo di riequilibrare bilanci in rosso questi paesi hanno bruciato l’impressionante cifra di 315 miliardi di dollari in riserve in valuta estera – praticamente un quinto del totale.

In questo contesto, l’obiettivo di Doha sarebbe stato quello di congelare la produzione di greggio dei partecipanti. Scopo ultimo: sostenere i prezzi. E, per questa via, dare una boccata d’ossigeno ai bilanci nazionali. Un primo indicatore delle tensioni che continuano a impedire ai paesi esportatori di raggiungere un accordo è proprio il fatto che a Doha si parlasse solo di un congelamento dei livelli di produzione (peraltro a livelli che per molti paesi sono tra i più alti di sempre), non di una loro riduzione.

L’incapacità dei partecipanti di raggiungere un consenso persino attorno a una proposta tanto modesta riporta alla luce quelle che sono almeno tre grandi divisioni tra gli stati rentier oggi. La prima separa nettamente chi ha deciso di prendere parte al vertice e chi non ha neppure preso in considerazione l’idea di partecipare. Di quest’ultimo gruppo fanno parte Iran e Libia, paesi che hanno come obiettivo di breve periodo quello di aumentare la propria produzione di greggio, costi quel che costi. Teheran punta a tornare ai livelli pre-sanzioni e, se possibile, a superarli, anche perché Rouhani vuole dimostrare al paese che l’accordo sul nucleare può dare benefici immediati a un’economia in subbuglio. La Libia, da par suo, non ha alcun interesse a impegnarsi a limitare la propria produzione, che al momento fluttua tra un terzo e un ottavo rispetto ai livelli del 2010 – a causa dell’instabilità e non per scelta razionale. E, in ogni caso, come avrebbe potuto rendere credibili le proprie promesse un paese in cui tre diversi governi si contendono controllo e legittimità?

C’è poi una seconda evidente linea di divisione che attraversa le delegazioni che erano presenti a Doha: quella tra chi aveva davvero interesse a congelare la produzione, e chi no. All’interno di questo secondo gruppo c’è sicuramente l’Iraq. Il lievitare delle spese necessarie a contrastare l’avanzata dello Stato islamico nel paese, la crisi che contrappone il Governo centrale all’amministrazione autonoma del Kurdistan e la totale assenza di riserve accumulate nel periodo di prezzi alti costringono oggi Baghdad a massimizzare le entrate fiscali. L’obiettivo è dunque quello di spingere la produzione al massimo. Cosa che è di fatto successa, visto che a marzo Baghdad ha pompato 4,5 milioni di barili al giorno: circa un milione in più rispetto allo scorso anno.

C’è infine un’ultima frattura, probabilmente decisiva, che corre all’interno di quel gruppo di paesi che a prima vista avrebbe tutto l’interesse a dare segnali di stabilità ai mercati. Da un lato ci sono governi che sono (letteralmente) alla canna del gas. Nell’elenco dei più colpiti impossibile non citare l’Angola, che ha espressamente chiesto l’intervento del Fondo monetario internazionale, o l’Azerbaigian, che ne discute da mesi. L’esempio più illuminante è però quello del Venezuela, afflitto da una crisi economica che il crollo dei prezzi petroliferi ha reso quasi insolubile: a inizio aprile Caracas ha persino dovuto includere il venerdì tra i giorni festivi della settimana per limitare i consumi energetici.

Dall’altro lato ci sono le monarchie del Golfo. Si tratta di Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, e soprattutto Arabia Saudita. Malgrado siano comunque costretti a mettere in atto una serie di misure di austerity potenzialmente destabilizzanti dal punto di vista sociale, questi paesi hanno accumulato una quantità di riserve sufficiente a resistere ai prezzi bassi ancora per diversi anni. Possono dunque permettersi ancora di “attendere”.

I sauditi, nelle cui scelte va infine ricercata la ragione del fallimento del vertice, non possono ormai che proseguire nella loro strategia di salvaguardare la propria quota di mercato, anche a costo di deprimere i prezzi.

C’è chi ne deduce obiettivi politici, come quello di assestare un duro colpo ai produttori shale americani, o di mettere in difficoltà l’arcinemico iraniano. Ma non va dimenticato il grande trauma storico della politica petrolifera saudita, quando proprio all’inizio del precedente ciclo di prezzi bassi, nei primi anni Ottanta, Riad tentò di sostenere i prezzi tagliando la propria produzione da 10 a 3 milioni di barili al giorno. Con il risultato di perdere quote di mercato a favore dei concorrenti, rischiando al contempo di compromettere i delicati equilibri all’intero della famiglia reale.

Ammesso che quella dei sauditi e dei loro alleati sia una strategia, in ogni caso, si sta rivelando molto costosa.

Dall’inizio della crisi, Riad stessa ha perso 140 miliardi di dollari di riserve. E, come abbiamo visto, molti altri paesi rentier rischiano di pagare un prezzo ben più alto. Nel frattempo, lo shale americano si è rivelato molto resistente, per un mix di finanziarizzazione e capacità dei produttori di comprimere i costi. Una flessibilità inizialmente inattesa, ma che sta infine dando segni di cedimento. L’agenzia americana EIA si aspetta una contrazione della produzione di greggio statunitense del 10% entro la fine di quest’anno. E gli scioperi in Kuwait di pochi giorni fa hanno dimostrato che basterebbe l’accendersi di ulteriori focolai di crisi per riequilibrare, anche se temporaneamente, domanda e offerta di greggio.

Doha è la cartina di tornasole di un mondo spaccato, in cui neppure paesi con interessi simili riescono a trovare la quadra per agire in maniera coordinata. Malgrado ciò, chissà che alla fine non siano proprio le forze di mercato, combinate alle conseguenze dell’instabilità politica, a rendere questa incapacità di azione congiunta una variabile del tutto irrilevante.

Pubblicato su Ispionline.it il 20 aprile 2016