La rapina globale della biomassa

deal_between_south_korea_and_indonesia[su greenreport.it] Il mercato delle commodity agricole da esportazione produce gravi conflitti locali

 

L’ultimo rapporto “Patterns of global biomass trade – Implications for food sovereignty and socio-environmental conflicts” dell’Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade (Ejolt) realizzato con il contributo di ricercatori di World Rainforest Movement, Grain, delle università austriache dell’Alpen-Adria e di Vienna e di quella etiope di Gondar, spiega la brutta storia dell’olio di palma in Indonesia e fa lo stesso per la soia in Paraguay, dove gli indios stanno protestando contro il governo e le multinazionali,  e per i grandi investimenti nel landgrabbing in Etiopia. Tre casi di studio che servono ad illustrare un’analisi più ampia dei modelli globali delle biomasse.

 

Uno degli autori, Andreas Mayer dell’istituto di ecologia sociale dell’università dell’Alpen-Adria, sottolinea che «L’attuale espansione di terreni agricoli nel sud del mondo mette grande pressione sulle popolazioni locali che sono spesso gravemente minacciate di perdere i loro mezzi di sussistenza. Il rapporto si propone di rivelare le condizioni biofisiche ed i driver strutturali di questi conflitti e quindi di identificare i potenziali conflitti che derivano dal modello dominante della produzione agricola industrializzata».

 

Tra la fine del XX secolo  e l’inizio del XXI  secolo, il commercio mondiale di prodotti agricoli è cresciuto oltre tre volte più velocemente rispetto alla produzione agricola. Quasi tutti la nuova terra messa in produzione dal 1986 è stato utilizzata per coltivare prodotti da esportare ed Ejolt evidenzia che «Mentre i maggiori volumi di produzione agricola del commercio aumentato la disponibilità globale di prodotti agricoli, i benefici e gli impatti negativi non sono distribuiti in modo uniforme a livello globale».

 

Se si guarda ai vari continenti, le aree dove l’aumento della produzione agricola per l’esportazione è più forte sono l’America Latina ed alcuni paesi del Sudest asiatico e dell’Europa orientale. «Questo orientamento all’ export è spesso associato ad  impatti negativi sull’autosufficienza alimentare – dicono i ricercatori – ed è una  potenziale minaccia per la sovranità alimentare dei paesi produttori».

 

Il caso più conosciuto di rapina della biomassa è quello dell’olio di palma, ma, nonostante le denunce delle associazioni ambientaliste e delle comunità locali, l’espansione dell’industria dell’olio di palma sembra inarrestabile. Mentre prima era usato soprattutto per cucinare e nella preparazione di alimenti, attualmente più della metà di tutto l’olio di palma che viene prodotto nel mondo finisce in saponi, cosmetici, biodiesel e per altri utilizzi industriali. Le piantagioni di palma da olio sono la monocoltura in più rapida crescita al mondo e quasi la metà di questa vertiginosa crescita globale – avvenuta tra i primi anni ‘60 e 2010 – è avvenuta in un solo Paese: l’Indonesia, dove si è passati dai meno di 70.000 ettari degli anni ’60 ai 6 milioni di ettari del 2012. Un’enorme espansione delle piantagioni di palma da olio che ha provocato forti danni ambientali, con la distruzione di interi ecosistemi e un impatto gigantesco sulla biodiversità, ma anche sul cambiamento climatico, dato che per far posto alle piantagioni sono state “bonificate” torbiere e paludi e sono state abbattute intere foreste che stoccavano quantità enormi di carbonio.

 

Ma l’espansione delle piantagioni di palma da olio è avvenuta anche a danno di comunità locali e popoli autoctoni che sono stati espropriati dei loro territori ancestrali dalle multinazionali e dalle loro filiali locali, con metodi brutali e che hanno scatenato conflitti sociali, spesso finiti in modo violento.

 

“Patterns of global biomass trade” esamina l’evoluzione globale della produzione alimentare e del commercio alimentare a livello mondiale ed individua le cause dei conflitti socio-ambientali. I due casi di studio dell’Indonesia e del Paraguay, importanti esportatori di prodotti agricoli, dimostrano che concentrarsi sulla produzione di materi prime per l’esportazione (estrattivismo) nel settore agricolo «Può essere collegato al potenziale aumento di conflitto socio-ambientale». Questa evidenza, getta a sua volta nuova luce sul terzo caso di studio dell’Etiopia, un Paese ancora più povero di Indonesia e Paraguay, dove è in corso una velocissima modernizzazione dell’agricoltura – gestita dallo Stato e da multinazionali straniere – proprio per farlo diventare uno dei principali esportatori di prodotti agricoli. Qui la rapina di biomassa sta provocando scontri con i popoli tribali che vengono sfrattati per far posto a grandi aziende agricole ed a dighe che servono ad irrigare i campi e dare energia alla nuova agro-industria .

 

Henk Hobbelink, di Grain,  ha detto che «Su questo tema, l’unica reale raccomandazione politica che vedo è che l’espansione delle commodity delle colture deve essere interrotta e invertita e la terra deve essere riportata ad una produzione alimentare nelle mani dei piccoli agricoltori».

 

I ricercatori sottolineano che «Concentrandosi sui driver dei conflitti per l’uso del suolo, i risultati presentati in questo rapporto riguardano argomenti importanti per la ricerca sulla sostenibilità e la politica in generale».

 

Gli autori concludono dicendo che «L’Unione europea dovrebbe rivedere la politica agricola comune per rafforzare l’agricoltura su piccola scala, promuovere filiere corte, sostenere programmi di commercio equo e solidale, oltre che  aumentare le pratiche biologiche e permacultura».

Pubblicato il 16 marzo 2015 su greenreport.it