[di Anna Coluccia, Silvia Morrone e Angelica Tosi su Greenreport.it] In occasione del XXXI Congresso nazionale della società italiana di criminologia, pubblichiamo – in collaborazione con l’Università di Siena – un approfondimento dedicato all’ambiente, a firma di Anna Coluccia (ordinario di Criminologia presso l’Ateneo toscano e presidente del Congresso), Silvia Morrone e Angelica Tosi.
La Legge n. 68 del 2015 per la prima volta ha introdotto nel Codice penale italiano un autonomo Titolo di “Delitti contro l’ambiente” – i cosiddetti ecoreati – andando così finalmente a configurare un diritto penale ambientale, limitato fin ad allora ad alcune contravvenzioni e pochissimi delitti (D.lgs n. 152/2006). Per cogliere la rilevanza della riforma è necessario comprendere come questo epocale mutamento normativo affondi le sue radici in una lunga evoluzione del pensiero e della sensibilità, non solo giuridici.
Va detto, in primo luogo, che il legislatore penale, attraverso la costruzione di nuove fattispecie di reato, non crea solo un ulteriore strumento punitivo, ma prende una posizione ben precisa: criminalizza cioè una data condotta perché considerata offensiva di un bene giuridico protetto dall’ordinamento. Questo è il vero bandolo della matassa. Il diritto penale per molto tempo è rimasto inerte perché l’Ambiente ha stentato ad acquisire lo status giuridico di bene meritevole di protezione, capace di trasformare i comportamenti offensivi dello stesso in condotte degne di essere stigmatizzate.
Ma perché tale riconoscimento non è avvenuto immediatamente? La spiegazione sta nel fatto che l’Ambiente non è un “valore naturale”, ovvero un bene degno di protezione ab origine, come lo è la vita o la salute. Allo stesso modo le condotte offensive del medesimo non possiedono un disvalore da sempre esistito e percepito tale dalla coscienza sociale, ma soltanto artificialmente costruito.
Il primo importante passo nella direzione del riconoscimento dell’Ambiente come bene meritevole in se stesso di protezione è avvenuto a partire dagli anni ’80, attraverso leggi e sentenze della Corte Costituzionale che hanno tuttavia abbracciato un’interpretazione limitata ed utilitaristica dell’Ambiente: quest’ultimo poteva divenire meritevole di tutela nei limiti in cui si fosse rivelato strumentale a proteggere la persona. Allo stesso modo, la morale collettiva ha iniziato a percepire la dannosità sociale dei comportamenti lesivi o distruttivi dell’Ambiente solo quando ne ha intravisto i conseguenti effetti pregiudizievoli sull’essere umano.
Un simile orientamento spiega perché la Magistratura fino al 2015, per incriminare le condotte più gravi di disastro ambientale, utilizzasse la categoria dei “delitti contro la pubblica incolumità” (intesa questa come integrità fisica di un numero indeterminato di persone), ed in particolare il reato di “disastro innominato” (art. 434 c.p.).
L’applicazione di quest’ultimo delitto si pone in perfetta sintonia con un’interpretazione antropocentrica dell’Ambiente. Ai sensi del suddetto reato, infatti, la responsabilità penale sorgeva e sorge tuttora non per la mera compromissione in sé dell’Ambiente, ma solo se da questa derivi un pericolo, giudizialmente accertato, per la vita di più persone e quindi per l’essere umano. Proprio la difficoltà di accertare tale rapporto di causa-effetto tra l’evento distruttivo e la messa in pericolo di più persone ha condotto frequentemente a sentenze di assoluzione, di fatto rendendo inefficace il sistema punitivo.
Ecco che, alla luce di tutto ciò, la riforma del 2015 acquisisce un peso rilevantissimo. Grazie ad essa esiste ora un autonomo nucleo di delitti che rende responsabile penalmente (e con pene severe) la condotta di chi compromette reversibilmente (reato di inquinamento) o irreversibilmente (reato di disastro ambientale) il solo Ambiente. Il legislatore penale, in forza di spinte riformatrici italiane ed europee e grazie anche ad una maggiore presa di coscienza da parte della collettività, decide finalmente di attribuire all’Ambiente lo status di bene giuridico, degno di essere autonomamente salvaguardato indipendentemente dalle lesioni ad altri interessi ad esso correlati.
Questa è la grande rivoluzione che la riforma porta con sé. Come ogni grande conquista, tuttavia, essa deve essere salvaguardata, persino dalle criticità che essa stessa origina. Nel caso specifico, un’imprecisa scrittura del nuovo reato di disastro ambientale (art. 452 quater c.p.) potrebbe determinare una pericolosa interferenza con il reato di disastro innominato poc’anzi descritto, portando ad una maggior applicazione processuale di quest’ultimo a dispetto del primo.
Un intervento chiarificatore della giurisprudenza, per scongiurare un ritorno al passato che vanifichi il cuore della riforma e riapra le porte alla grande stagione dell’impunità, risulterebbe pertanto quanto mai opportuno, e anzi oltremodo prezioso.
(Pubblicato il 24/10/2017)