Le criticità degli Intended Nationally Determined Contributions

[tratto dal dossier L’Italia vista da Parigi] In vista dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, da poco entrato in vigore, ciascuno Stato ha formalizzato le azioni che intendeva intraprendere nell’ambito del nuovo trattato internazionale, all’interno degli Intended Nationally Determined Contributions (INCDs). Dopo la firma dell’accordo e la ratifica, gli INDC diventano Nationally Determined Contributions (NDC) e acquisiscono carattere obbligatorio. In definitiva, le azioni comunicate negli INDC/NDC determineranno o meno il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine contenuti nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi, ovvero mantenere l’incremento totale di temperatura entro i 2C, fare gli sforzi necessari per limitare l’incremento a 1,5°C e arrivare all’obiettivo di zero emissioni al più presto possibile. In uno studio presentato subito prima della Cop21, il gruppo di ricerca indipendente Climate Action Tracker (10) ha esaminato gli impegni stabiliti da 59 Paesi, raggruppati in 32 INDC (i 28 paesi dell’Unione Europea hanno presentato un INDC comune), corrispondenti all’81,3% delle emissioni globali registrate nel 2010 (11) per valutare la loro compatibilità con l’obiettivo previsto dall’accordo. Gli impegni assunti dai vari paesi dai vari paesi sono stati raggruppati in quattro gruppi come da grafico a sinistra.

 

Livelli di adeguatezza

1) inadeguato: gli obiettivi di riduzione sono meno ambiziosi dell’obiettivo 2°C; se tutti i paesi adottassero posizioni giudicate inadeguate, si arriverebbe ad un innalzamento della temperatura di 3 – 4°C;

2) medio: gli impegni dei governi si situano nella fascia meno ambiziosa per rimanere entro i 2°C; se tutti i paesi adottassero promesse medie, l’aumento della temperatura sarebbe probabilmente superiore ai 2°C;

3) sufficiente: gli impegni presi dai governi si trovano nella fascia più ambiziosa per rimanere entro i 2°C; se tutti i paesi adottassero promesse sufficienti ci sarebbero buone probabilità di contenere il riscaldamento entro 2°C; 4) modello da seguire: gli obiettivi di emissione risultano più ambiziosi del raggiungimento dei 2°C. Nessuno dei 32 INDC esaminati è stato valutato come modello da seguire, solo 5 sono stati valutati sufficienti (Bhutan, Costa Rica, Etiopia, Marocco e Gambia), 11 come medi (tra cui Unione Europea, Cina e Stati Uniti d’America) e 15 come inadeguati (tra cui Canada, Australia e Giappone). (Fonte: Climate Action Tracker)

Indc “inadeguati”: Climate Action Tracker ha classificato gli INDC di paesi rilevanti come Canada, Australia Giappone tra quelli inadeguati.

Canada. Ha indicato di voler ridurre le sue emissioni di gas ad effetto serra del 30% al 2030 rispetto ai livelli del 2005 ed ha incluso all’interno del suo INDC le attività LULUCF (1). Secondo Carbon Action Tracker inglobare le attività LULUCF negli INDC non è la giusta via per attuare un efficace processo di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Così facendo non si propone un reale piano per ridurre le emissioni da combustibili fossili ma si cerca soltanto un modo per compensarle. Secondo Climate Action Tracker, anche contabilizzando l’attività di selvicoltura, il Canada può arrivare al 13% di riduzione rispetto al 2005. Ciò equivale ad un aumento dell’8% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990. Nonostante la ratifica dell’Accordo di Parigi e l’annuncio del primo ministro canadese Justin Trudeau dell’introduzione di una tassa sul carbone (carbon tax), il governo canadese non si è certo contraddistinto negli ultimi decenni per il suo impegno a tutela dell’ambiente. Nessun governo ha mai rinunciato allo sfruttamento del petrolio ricavato dalle sabbie bituminose: secondo uno studio elaborato nel 2014 dal Congressional Research Service, le emissioni delle sabbie bituminose possono superare quelle del petrolio anche del 20% (2). Inoltre il 27 settembre 2016, pochi giorni prima di ratificare l’Accordo di Parigi, il parlamento canadese ha approvato il progetto per lo sviluppo di un gasdotto che trasporterà gas naturale liquefatto dal nord-est del Canada verso la costa, per poter essere importato in Asia. L’accordo da 36 miliardi di dollari è stato concluso con la multinazionale Petronas, basata in Malesia (3).

Australia. Ha indicato di voler ridurre le sue emissione di gas serra del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 all’orizzonte 2030 ed ha incluso nei suoi INDC anche le attività LULUCF da attivare in campo agricolo e forestale per il sequestro della CO2. Escludendo queste ultime attività, secondo Climate Action Tracker l’obiettivo stabilito potrebbe tradursi in una riduzione per il 2030 di valore compreso tra +5% e -5% (questa la forchetta calcolata) rispetto ai livelli di emissioni del 1990. Se tutti i paesi adottassero lo stesso approccio si avrebbe un aumento della temperatura di 3-4°C. Inoltre, c’è un enorme gap tra gli obiettivi indicati nell’INDC e le proiezioni delle politiche attuali, secondo le quali le emissioni sono destinate ad aumentare del 27% rispetto al 2005 per il 2030, con un incremento del 61% rispetto ai livelli del 1990. Nel luglio 2014 il governo australiano ha inoltre abolito la carbon tax, ovvero la tassa sulle emissioni di CO2, grazie all’abrogazione del Clean Energy Future Plan.

Giappone. Il Giappone si è impegnato a ridurre le emissioni di gas serra al 2030 del 26% rispetto al 35 2013, ovvero del 18% rispetto al 1990. Tenendo conto delle attività LULUCF e del ricorso al sistema dei crediti dal Giappone, l’obiettivo si traduce nella riduzione del 23,3% al 2030, ovvero una riduzione del 15% rispetto al 1990. Gli obiettivi del Giappone sono così poco ambiziosi che con le politiche già messe in atto si potrebbe arrivare al raggiungimento degli stessi scarsi obiettivi senza adottare ulteriori provvedimenti. La strategia energetica giapponese oggi in atto non è in grado di assicurare alcuna transizione verso un’economia a basse emissioni, visto il ruolo sempre più importante assunto dalle centrali a carbone nel paese.

Indc “medi”: secondo Climate Action Tracker, tra gli INDC classificati come medi figurano due economie in rapido sviluppo, la Cina e l’India, e alcuni tra i maggiori inquinatori storici, come Stati Uniti e Unione Europea. Nonostante la qualifica come “medi”, le critiche mosse a questi INDC sottolineano il rischio che essi siano comunque inadeguati al mantenimento dell’aumento di temperatura entro i 2°.

Cina. Nel suo INDC la Cina si è posta come obiettivi al 2030 il raggiungimento del picco di emissione di CO2, la riduzione delle emissioni di CO2 per unità di PIL tra il 60% e 65% rispetto al 2005, l’aumento fino al 20% della quota di energia primaria da fonti non fossili e l’aumento del volume del legname nelle foreste di almeno 4,5 miliardi di metri cubi rispetto al 2005. Tali impegni rappresentano un grande limite per l’attuazione degli obiettivi generali dell’accordo. Nonostante collochino l’INCD della Cina nella lista dei “medium”, i ricercatori di Climate Action Tracker sono stati molto critici sul ruolo del paese asiatico. Secondo l’analisi svolta dal team le emissioni potrebbero essere concretamente ridotte solo a patto di implementare politiche nazionali ambiziose, orientate anche alla riduzione dell’inquinamento atmosferico. Per tali ragioni ritengono l’INDC cinese non sufficiente per rimanere nei 2°. A supportare la tesi dell’insufficienza delle politiche cinesi nel campo energetico è anche un altro studio denominato “Structural change in Chinese economy: Impacts on energy use and CO2 emissions in the period 2013–2030” (4), realizzato dall’ Academy of Finland insieme alla Chinese Academy of Social Sciences, secondo cui gli obiettivi stabiliti nel campo delle rinnovabili non sono sufficienti per far sì che il carbone perda il primato nel soddisfacimento della richiesta energetica cinese.

India. L’India si è impegnata a ridurre le emissioni per unità di PIL del 33-35% rispetto ai livelli del 2005, a proteggere e ripristinare la copertura forestale così da assorbire 2,5-3 miliardi di tonnellate di CO2, e a generare il 40% della sua energia tramite rinnovabili entro il 2030. Secondo Climate Action Tracker la descrizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni dell’India è molto breve e poco specifica: per consentire una stima più accurata dovrebbe aumentare la trasparenza della descrizione (5). Perplessità sull’INDC dell’India sono state espresse da CarbonBrief, secondo il quale la crescente economia dell’India porta a pensare che le emissioni anziché diminuire, tenderanno ad aumentare nel prossimo futuro (6). Ulteriori perplessità sono state sollevate da Greenpeace circa la posizione del governo sull’apertura di nuove centrali a carbone, che risultano in contrasto con gli ambiziosi obiettivi contenuti nell’INDC (7).

Stati Uniti. Gli Stati Uniti si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 26-28% rispetto al 2005 per il 2025, includendo nella contabilizzazione delle emissioni anche le attività LULUCF. Secondo Climate Action Tracker l’impegno americano non è soddisfacente perché per rimanere entro i 2°C i restanti paesi dovrebbero adottare misure molto più stringenti rispetto agli impegni assunti. Secondo Climate Action Tracker inoltre, per raggiungere l’impegno fissato dall’INDC al 2025, sarebbe necessario introdurre nuove e più incisive politiche.

Unione Europea. L’Unione Europea ha costruito il suo INDC basandosi sugli obiettivi energetici al 2030 votati nel 2014 (8). Climate Action Tracker ha classificato gli impegni dell’UE come “medi”, valutandoli però poco ambiziosi e comunque non del tutto adeguati agli obiettivi di riduzione fissati dall’accordo (9).

In generale, il target complessivo UE per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra è troppo modesto per essere considerato un approccio convincente, considerando anche le responsabilità storiche del vecchio continente nelle emissioni globali. In tal senso Climate Action Tracker considera che le politiche UE attualmente in atto riusciranno a ridurre le emissioni domestiche di gas ad effetto serra solo del 23-35% sui livelli del 1990, e quindi non permetteranno all’Europa di raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030 (40% di riduzione) e al 2050 (80-95% di riduzione). Così come per altri paesi, Climate Action Tracker considera che un ulteriore elemento critico sia l’inclusione nell’INDC dell’UE del settore LULUCF: al momento della loro inclusione nell’INDC, l’UE non ha specificato né le regole con cui le azioni di mitigazione dovrebbero essere messe in atto, né il loro possibile impatto sui livelli di emissione nel 2030.

Carbon Tracker Initiative sostiene che l’UE dovrebbe chiarire a che livello l’inclusione di tali misure influenzi la riduzione di emissioni in altri settori, per esempio, dovrebbe impegnarsi a garantire che l’obiettivo di “riduzione di almeno il 40% delle emissioni domestiche” che riguarda le sole emissioni industriali (10) sia raggiunto indipendentemente (e non cumulativamente) rispetto ai contributi del settore LULUCF.

Nel luglio 2016, la Commissione Europea ha presentato una proposta di legge per l’Effort Sharing Regulation, cioè la suddivisione tra gli Stati Membri dell’obiettivo comunitario di riduzione delle emissioni di gas serra (11), ma non ha rivisto al rialzo il suo obiettivo di riduzione globale delle emissioni, che è rimasto fermo al 40% rispetto al 1990, cioè troppo basso secondo l’analisi di Climat Action Tracker. Contemporaneamente la Commissione ha presentato una proposta di regolamento per il settore LULUCF.

Come illustrato dal sito di informazione climatica Climalteranti (12), questo settore è estremamente complesso perché è l’unico dove le emissioni di origine antropica sono strettamente connesse al ciclo naturale del carbonio. Per cercare di distinguere le une dalle altre e quindi incentivare azioni di riduzione delle emissioni e/o aumento delle iniziative di assorbimento, la Commissione ha elaborato complicate regole di contabilizzazione che premetteranno di generare “crediti” da utilizzare nei settori energetici non industriali oppure dei “debiti” che dovranno essere compensati da ulteriori riduzioni di emissioni in altri settori energetici, sempre non industriali.

Secondo questa analisi, la regola più controversa che la Commissione ha proposto per la gestione del settore LULUCF riguarda la gestione delle foreste esistenti, che avverrà attraverso il confronto con un livello di riferimento futuro di assorbimento di CO2 basato su un’ipotesi di continuità della gestione attuale da parte singoli paesi. Se gli assorbimenti di CO2 saranno superiori alle previsioni, il Paese potrà utilizzarli come “crediti” nei settori energetici non industriali.

Questo meccanismo di debiti e crediti è pericoloso perché, come denunciato da Carbon Tracker Initiative, potrebbe indebolire il processo di riduzione delle emissioni di gas serra. Tuttavia secondo Climalteranti questa regola potrebbe incentivare azioni di mitigazione nel settore forestale e consentire una contabilizzazione più credibile delle biomasse utilizzate a fini energetici. Attualmente metà dell’energia rinnovabile in Europa proviene da biomasse, ma oltre al problema della deforestazione e della perdita di biodiversità, per contrastare efficacemente i cambiamenti climatici sarà necessario promuovere soprattutto la diffusione di tecnologie rinnovabili a basso impatto di carbonio.

 

Estratto dal Capitolo II del dossier L’Italia vista Parigi

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NOTE

(1) Il settore LULUCF (Land Use, Land-Use Change and Forestry) include tutti gli usi del suolo (tranne le emissioni di CH4 e N2O del settore agricoltura).

(2) Congressional Research Service , Canadian Oil Sands: Life-Cycle Assessments of Greenhouse Gas Emissions, 2014 www.fas.org.

(3) Come riportato su Ricochet ricochet.media

(4) Academy of Finland and Chinese Academy of Social Sciences, Structural change in Chinese economy: Impacts on energy use and CO2 emissions in the period 2013–2030. Lo studio è disponibile qui: www.qualenergia.it

(5) L’analisi di Climate Action Tracker sull’India è disponibile qui: climateactiontracker.org

(6) L’analisi di CarbonBrief sugli INDC presentati dall’India è disponibile qui: www.carbonbrief.org/indias-indc.

(7) Comunicato stampa di Greenpeace del 2/10/ 2015, disponibile qui: www.greenpeace.org

(8) Gli obiettivi energetici dell’Unione Europea al 2030 sono stati approvati nel 2014 con il “2030 climate and energy goals for a competitive, secure and low-carbon EU economy”.

(9) L’analisi di Climate Action Tracker sugli INDC presentati dall’UE è disponibile qui: climateactiontracker.org

(10) Questo era quanto stabilito dal Protocollo di Kyoto, Annesso A (fonti e gas).

(11) Nel luglio 2016 la Commissione Europea ha presentato una proposta legislativa sull’Effort Sharing ec.europa.eu ovvero su come suddividere gli impegni per arrivare agli obietivi energetivi al 2030 tra gli Stati Membri.

(12) L’analisi di Climalteranti è disponibile al seguente link: www.climalteranti.it