Myanmar, la Cina costruisce un porto e un gasdotto: in fuga pescatori locali e 23 villaggi fantasma

1_IMG_6178[Su Repubblica.itIl colosso asiatico si collega al Golfo del Bengala per ricevere il greggio del Medio Oriente. L’ente nazionale petrolifero cinese, assieme all’omologo birmano, ha aperto un porto sulle coste occidentali del Myanmar e ora sta ultimando il gasdotto che lo collegherà alla provincia cinese dello Yunnan. Intanto, le aziende del Dragone costruiscono dighe e impianti idroelettrici in tutta la Birmania. I rischi per l’ambiente e per una popolazione in stragrande maggioranza rurale.

 

MILANO – Vie del gas e del petrolio, rapporti geopolitici e impatto ambientale sono al centro dell’attenzione del Corridoio BCIM, che collega la Cina al Golfo del Bengala, permettendo di evitare il Golfo di Malacca. Da quest’ultima via, tra Indonesia, Malesia e Singapore, passa ora il 40% del petrolio mondiale, un transito inferiore solo a quello dello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico, ma Malacca, oltre che di pirati, è sinonimo di egemonia americana. Ecco perché il Dragone cinese ha bisogno di vie alternative…

 

Una via alternativa in espansione. BCIM indica Bangladesh, Cina, India e Myanmar (nome con il quale è stata ribattezzata la Birmania dal 2010), cioè i quattro Stati che costituiscono soltanto il 9% della superficie mondiale, ma ben il 40% della popolazione globale. Allo stesso tempo, gli scambi commerciali tra i quattro sono bassi (5% del volume totale nel 2012), ma molti analisti sostengono siano destinati a crescere. Soprattutto seguendo la sete di energia. Del resto, la Cina è diventato il maggior consumatore del pianeta e, secondo l’Energy Information Administration (http://www. eia. gov/) statunitense, soppianterà a breve gli Usa come primo importatore al mondo.

 

Un porto con dodici serbatoi di stoccaggio. Da pochi giorni, il governo birmano ha ufficialmente aperto un porto in mare aperto, al largo delle coste occidentali, che permetterà di portare il greggio del Medio Oriente all’interno della Cina. È un progetto previsto dalla joint venture da 2,45 miliardi di dollari tra le aziende statali dei due paesi coinvolti, la China National Petroleum Corp. (Cnpc) e la Myanmar Oil and Gas Enterprise (Moge). Il porto, che ha dodici serbatoi di stoccaggio con una capacità di 83 milioni di litri ciascuno, ha stravolto Ramree Island, trasformando questo villaggio birmano di pescatori e foreste di mangrovie in uno snodo del commercio energetico della zona: ora è un hub di 17 chilometri quadrati e c’è il progetto di farne un’area di libero scambio sul modello di Singapore.

 

Un gasdotto fino alla Cina. Costruito il porto, si sta ora ultimando il gasdotto, lungo 770 chilometri, che colleghi questa regione del Myanmar, l’Arakan, con lo Yunnan, provincia cinese dell’estremo sud-ovest, in forte crescita economica. Secondo il comunicato stampa riportato sul sito della Cnpc, le tubature nello zona di Kyaukphyu sono già pronte per trasportare una media di 190 milioni di galloni di petrolio al giorno. Le raffinerie per ricevere il greggio non sono ancora terminate ma le operazioni di prova al porto sono già iniziate.

 

Le critiche degli ambientalisti. In una cerimonia nella capitale, U Nyan Tun, vicepresidente del Governo birmano che nel 2011 ha preso il posto della giunta militare, ha elencato i vantaggi del nuovo gasdotto per il suo paese: ricavi, manodopera e fornitura di greggio per il consumo interno; su quest’ultimo punto, non ha fornito dati precisi, sebbene si parli del 90% da trasportare in Cina. Attivisti locali hanno risposto citando potenziali rischi ambientali e l’inadeguata compensazione dei terreni perduti dai pescatori locali. “Il prezzo del progresso ricade tutto su popolazioni poverissime”, ripetono.

 

Gli ecosistemi distrutti. Per il Burma Rivers Network, l’altro fronte da monitorare sono le sei nuove dighe da costruire sul corso del fiume Thanlwin, il più lungo dell’Indocina dopo il Mekong (nasce in Tibet). Nella parte superiore del fiume, in territorio cinese, le dighe sono già state realizzate; alcune ong birmane (ReamMee Net, Terra hanno denunciato le conseguenze: le modifiche alla corrente – con un aumento della salinità dell’acqua nel fiume principale e nei suoi affluenti – hanno portato all’erosione del suolo e, nel corso degli anni, alla scomparsa di terreni agricoli, di interi villaggi e di isole nel delta del Golfo di Martaban, nel sud del Myanmar. A loro volta, tutto ciò, insieme agli scarti chimici riversati nel fiume, ha portato a una moria di gamberi e pesci, naturali predatori di insetti che stanno ora danneggiando le risaie, nell’impotenza degli agricoltori della zona.

 

Nel cuore del paese. Sul fiume Paunglaung, la diga e l’impianto idroelettrico da 140 megawatt di capacità sono stati terminati. Servivano per portare energia elettrica alla nuova capitale Na-pyi-daw, 50 chilometri più a sud; anche qui, fanno affari i cinesi della Yunnan Machinery Equipment Import and Export, consorziati con gli svizzeri dell’Af Group. Intanto, la Burma Campaign, Ong che si batte contro le violazioni dei diritti umani con sede a Londra, ha individuato 23 villaggi fantasma, abbandonati dagli 8000 abitanti che vivevano pescando nel fiume e coltivando risaie. Alcuni sono stati ricostruiti sulle colline dopo essere stati sommersi dall’acqua, quando hanno costruire il lago artificiale nell’unica zona pianeggiante lungo il corso del fiume. Abusi sulla popolazione locale, trasferimenti forzati, violenze su chi protestava, risarcimenti irrisori, fine delle attività lavorative (qualcuno campa ancora intrecciando cesti), sono le denunce delle varie ong.

 

Pubblicato il 5 Febbraio 2015 su Repubblica.it