La maledizione dell’estrattivismo

Pericolo1[Di Raúl Zibechi su Ecologiapolitica.org] Se aveste qualche dubbio che l’attuale sistema basato sull’estrattivismo sia una guerra contro i poveri (una “quarta guerra mondiale”, come l’ha definita il subcomandante Marcos), la lettura del lavoro di Re:Common vi condurrà nell’orrore vissuto dal basso, da chi vive nelle zone in cui imperversa lo sfruttamento delle multinazionali.

Se, mossi dalla fiducia nei grandi media e negli studi ufficiali, aveste mai pensato che il colonialismo è stato cancellato dalla faccia della terra, questo lavoro, ben documentato e ricco di testimonianze, vi persuaderà del contrario.

Se credete che il progresso sia la caratteristica più saliente della nostra epoca, cominciata nel secondo dopoguerra, le voci afflitte che popolano queste pagine vi convinceranno che il capitalismo attuale non è che una versione appena ritoccata della Conquista spagnola di cinquecento anni fa.

Nel corso di questo lavoro si riconoscono tutte le variabili costituenti dell’estrattivismo: dall’occupazione del territorio allo sfollamento della popolazione, fino al ruolo delle banche offshore e del sistema finanziario, elementi inseparabili e complementari dell’accumulazione per spoliazione/esproprio.

Nei territori occupati, lo sfollamento assume le dimensioni di una guerra in cui partecipano militari, paramilitari, guerriglieri e gli attori armati più diversi che si possano immaginare. Le vittime sono sempre i più deboli: le donne indigenti e i loro figli, gli anziani e le anziane, i contadini, gli indios, i neri, i meticci. I “condannati della terra”, come li definisce Frantz Fanon. È interessante sottolineare, per quanto appaia fuori tempo e senza citare eminenti fonti accademiche, la sintonia del modello estrattivista con l’esperienza coloniale; non solo per l’occupazione violenta dei territori e lo sfollamento della popolazione, ma anche nell’osservazione delle caratteristiche più specifiche del modello.

Nella sfera economica, l’estrattivismo ha prodotto economie di enclave simili a quelle indotte nelle colonie, in cui i porti fortificati e le piantagioni degli schiavisti rappresentano il capolavoro del ladrocinio. I popoli sono tanto ostaggio di questo modello coloniale/estrattivista nel Duemila quanto lo erano nel Millecinquecento.

In ambito politico, esso genera una robusta ingerenza da parte delle multinazionali, che spesso si alleano con gli Stati ottenendo la modifica di quadri normativi e la connivenza di comuni e autorità locali, che si palesa nell’asimmetria fra il potere delle società private e la debolezza delle istituzioni, talvolta indotta dalle stesse élite locali che traggono vantaggio dal modello.

Proprio come il colonialismo, il modello estrattivista promuove la militarizzazione dei territori, unico strumento in grado di sradicare la popolazione che, per citare il subcomandante Marcos, rappresenta il vero nemico di questa quarta guerra mondiale. La militarizzazione, la violenza, lo stupro sistematico di donne e bambine non sono eccessi né errori, ma elementi integranti di un sistema in cui l’obiettivo militare è la popolazione stessa.

Per arrivare a comprendere l’estrattivismo non dobbiamo inquadrarlo come modello economico, quanto piuttosto come sistema. Come per il capitalismo. Ovviamente esiste un’economia capitalista, ma il capitalismo non si riduce all’aspetto economico. L’estrattivismo, come espone bene Re:Common, è il capitalismo della finanziarizzazione e non può essere inteso esclusivamente come una variabile economica.

Esso implica un modello culturale fondato sulla promozione del consumo anziché sul lavoro e si erige sulla precipua funzione della corruzione sistematica. Per dirla in parole povere, la corruzione è la modalità “estrattiva” del governare.

Ecco, dunque, che l’estrattivismo trascende il suo ruolo economico per rivelarsi attore politico, sociale, culturale, e certamente anche economico. A tale riguardo, è stato estremamente opportuno dedicare la parte centrale di questa elaborazione alla storia delle persone e delle terre, vittime di una spoliazione che surclassa la sottrazione dei beni comuni: interpretare la spoliazione e la privazione esclusivamente come saccheggio vale a porre al centro della questione la proprietà sui beni, mentre il perno devono essere le persone e la terra, cioè la vita.

Negli ultimi vent’anni, noi detrattori del modello estrattivista abbiamo commesso almeno due errori. Da un lato ci siamo concentrati sulla questione ambientale, sull’impatto negativo del modello sull’ambiente, provocando la reazione della Banca mondiale e delle multinazionali, che ora inneggiano a un’ “industria mineraria sostenibile”, se non addirittura verde. Il fatto è che all’inizio, durante la fase di avviamento del modello, ci eravamo fissati sull’impatto più evidente: l’inoccultabile, asfaltante degrado ambientale. Solo il tempo ci ha permesso di comprendere le altre sfaccettature.

Il secondo lo abbiamo già introdotto: abbiamo creduto nella centralità dell’economia cedendo alla “resa culturale” nei confronti dei valori del capitalismo, spensieratamente abbracciati dalla sinistra istituzionale e da buona parte del pensiero critico. No. Il modello estrattivista, come si leggerà nelle pagine seguenti, è un modello politico che colpisce direttamente le popolazioni, che tenta di sterminare la maggior parte degli abitanti del pianeta, sovrappopolato, secondo le élite. Sono molti i modi per raggiungere questo scopo: l’appropriazione dell’acqua e della terra, la distruzione dell’agricoltura familiare e della sovranità alimentare, l’aggressione alla salute di milioni di individui, lo sterminio delle api, l’eliminazione della popolazione rurale e la sterilizzazione della terra su cui vivono le famiglie indios, nere e meticce. Ecco perché scelgo di parlare di “quarta guerra mondiale”, perché mi sembra una descrizione dal basso di ciò a cui devono far fronte i popoli.

Ma non possiamo limitarci alla condanna del modello. Ci chiedono in continuazione quali siano le alternative, come ci ricordano gli autori nella conclusione del lavoro, ma bisogna dire forte e chiaro che non esistono alternative. Non esiste un’alternativa all’estrattivismo senza affrancarsi dal capitalismo. L’unica alternativa è sconfiggere l’1%, o meglio, l’unica alternativa è politica ed è fare resistenza all’1% mentre si comincia a costruire un mondo diverso da quello del capitale. Non esistono alternative all’estrattivismo perché non si può tornare all’industria tradizionale. Alcuni governi progressisti promuovono il “salto industriale”. È illogico e insensato un progetto industrialista che vada controsenso rispetto ai processi e alle tendenze attualmente in essere nel mondo.

Il secondo è che non esistono alternative economiche all’estrattivismo, ma alternative che significhino un nuovo potere, una nuova cultura, una nuova società, nuovi modi di vivere. L’estrattivismo non è quello che accade nelle miniere o nei campi di soia. Non possiamo allontanarci dall’estrattivismo mantenendo questi livelli di consumo e gli stili di vita che conduciamo oggi.

Infine, non si esce dall’estrattivismo senza una crisi, ma al tempo stesso se non ne usciamo andremo incontro a una crisi di proporzioni ciclopiche: una crisi politica e sociale, sanitaria e ambientale. Due anni fa l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che gli antibiotici stanno raggiungendo la soglia di non efficacia. Riuscite a immaginare la salute senza gli antibiotici?

Abbandonare il modello estrattivista implica una profonda riconversione delle nostre società. Se vogliamo uscire dalla situazione in cui ci troviamo dobbiamo essere in grado di sconfiggere politicamente, socialmente e culturalmente, con la forza, questo 1% di ricchi e gli apparati statali che li sostengono. Perché gli apparati statali sono al servizio di questo 1%.

In America Latina i soggetti che resistono al modello estrattivista sono impegnati in un nascente dibattito su quali siano le strade per la trasformazione della società. Uno dei temi di discussione più rilevanti ruota intorno alla questione elettorale. L’attivismo si chiede se sia necessario dedicare sforzi a quest’ambito, o se non sia piuttosto una perdita di tempo e risorse. Nel frattempo, si discute il rapporto fra lo Stato e i movimenti, fra i vecchi movimenti come quelli sindacali e i nuovi movimenti delle donne, degli indios e dei neri.

Inoltre, discutiamo di se e come costruire alternative in seno allo stato-nazione. L’antropologa boliviana Silvia Rivera Cusicanqui sostiene che lo stato-nazione sia la camicia di forza del movimento indigeno.

Unendoci alla sua voce, potremmo dire che lo stato-nazione è la camicia di forza delle lotte per l’emancipazione. Si tratta di un dibattito molto recente che è stato ampiamente approfondito all’interno di alcuni movimenti indigeni, come che sia, dobbiamo concepire un nuovo orizzonte di emancipazione oltre lo Stato.

Sono, queste, tutte discussioni imprescindibili che rappresentano il nostro impegno quotidiano. Per intraprendere le giuste strade occorre, innanzitutto, riconoscere la realtà nella sua obiettività, senza i paraocchi ideologici che spesso ottenebrano la comprensione. Crogiolarsi su false rette vie, mentre in realtà ci dirigiamo a passo di marcia verso il burrone, è un errore dalle conseguenze drammatiche misurabili in perdite di vite umane. Lo storico della Comune di Parigi, Prosper-Olivier Lissagaray, ci rammenta l’importanza di un’analisi corretta: “chi crea false leggende rivoluzionarie per il popolo, chi lo intrattiene con racconti ammalianti è un criminale tanto efferato quanto il geografo che traccia carte menzognere per i navigatori”.

Ecco una delle migliori virtù di questo lavoro: mostra la realtà dell’estrattivismo in tutta la sua brutalità, senza concedersi scorciatoie legaliste o percorrere sentieri istituzionali. Insegna l’importanza della fratellanza fra tutti i sottomessi, viale luminoso verso l’emancipazione, l’acume nel riconoscere nel modello estrattivista un vasto piano contro l’umanità e contro la vita. Si presenta al lettore un’opera che non cerca di rasserenare gli animi, ma di chiamare le cose con il proprio nome, prima regola per non perdersi nel bosco.

 

 

Pubblicato su Ecologiapolitica.org il 26 maggio 2016