Sentenza ONU: espellere i migranti climatici costituisce una violazione dei diritti umani

[di Maria Marano per CDCA] Sta facendo molto discutere in questi giorni la sentenza “Views adopted by the Committee under article 5 (4) of the Optional Protocol, concerning communication No. 2728/2016” del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, nella quale si legge che le persone costrette a migrare a causa di un imminente pericolo legato agli effetti della crisi climatica non possono essere rimpatriate in quanto ciò costituirebbe una violazione dei diritti umani, in particolare “del diritto alla vita”.

Il Comitato ha emesso questo giudizio dopo aver esaminato il caso di Ioane Teitiota, cittadino di Tarawa (isola della Repubblica di Kiribati nell’oceano Pacifico), che nel 2013 aveva cercato protezione in Nuova Zelanda, indicando l’innalzamento del livello del mare come una minaccia per la sua vita. Per comprendere meglio la richiesta di rifugio fatta da Teitiota è necessario analizzare il contesto di provenienza. L’isola di Tarawa nel 1947, quando Kiribati era ancora una colonia britannica delle Gilbert ed Ellice, contava solo 1.641 abitanti mentre nel 2010 erano arrivati a circa 50.000, questo perché l’innalzamento del livello del mare aveva reso inabitabili le isole vicine e costretto le persone a spostarsi in zone più sicure. Un sovraffollamento che ha generato tensioni sociali, disordini e violenza. Inoltre, secondo il racconto di Teitiota, a Kiribati i raccolti sono già insufficienti per sfamare la popolazione locale, l’erosione costiera e la contaminazione delle acque dolci costituiscono un pericolo reale, e probabilmente le Piccole isole del Pacifico diventeranno non abitabili entro i prossimi 10-15 anni. Nonostante le minacce alla propria sopravvivenza derivate dal cambiamento climatico, dopo vari ricorsi alla giustizia neozelandese la richiesta di Teitiota è stata respinta, così nel 2015 lui e la sua famiglia sono stati rimpatri.

A nulla è servito anche il ricorso al Comitato per i Diritti Umani dell’ONU. I giudici hanno difatti stabilito che, in questo caso specifico, la vita dell’uomo e dei suoi familiari non era a rischio imminente. Il Comitato ha però sottolineato, e qui si trova la forza di questa sentenza (seppure non vincolante), che obbligare le persone a tornare in Paesi in cui i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia impellente violerebbe i diritti umani, secondo quanto previsto dagli articoli 6 e 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che tutelano il diritto alla vita. Inoltre, nella sentenza è significativo il passaggio in cui si riporta che “Dato che il rischio che un intero Paese venga sommerso dall’acqua è un pericolo estremo, le condizioni di vita in un Paese del genere possono diventare incompatibili con il diritto a una vita dignitosa prima che il rischio venga realizzato”.

In futuro questa sentenza del Comitato dell’ONU per i Diritti umani potrebbe costituire uno strumento giuridico al quale appellarsi per le richieste di asilo legate alla crisi climatica.

Ciò apre degli scenari interessanti in campo giuridico e anche politico, tenuto conto che il numero delle persone costrette a migrare a causa degli effetti dei cambiamenti climatici è in aumento. Siccità, innalzamento dei livelli dei mari, riduzione delle terre fertili, come sottolineato anche negli ultimi tre rapporti: “Oceani e Criosfera”, “Cambiamento climatico e territorio” e “Rapporto speciale 1.5°C” dell’IPCC (il gruppo di scienziato dell’ONU che studia il cambiamento climatico), porteranno milioni di persone a dover abbandonare le proprie case.

Con questa sentenza, inoltre, l’ONU invita gli Stati a compiere degli sforzi, sia a livello nazionale che internazionale, per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e ad accogliere le persone che fuggono dai pericoli, sempre più tangibili, legati alla crisi climatica.