Sviluppo, giustizia sociale e crisi ambientale

1[di S. Altiero e M. Di Pierri per Gazzetta Ambiente, Anno XXI, n.3/2015] Un saggio di A Sud e del CDCA inserito nel n. 3/2015 di Gazzetta Ambiente, il bimestrale sull’ambiente e il territorio con il patrocinio del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Il numero in cui è stato inserito il contributo è dedicato a energia e conflitti; i contesti delle nuove economie da una lettura politica della conflittualità socio-ambientale agli energy poors europei; dalla food-fuel competition all’incremento delle fonti fossili e del biocidio.

Il Club di Roma, nel 1972, supportando lo studio di Donella Meadows, Limits to Growth, affermava che la finitezza del pianeta e la limitatezza delle risorse, in connessione con la crescita demografica, avrebbe portato all’arresto della crescita economica e della popolazione stessa, determinato dal progressivo esaurimento delle risorse, carbone prima e petrolio poi e mettendo a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Queste previsioni, pur individuando correttamente i rischi connessi all’incremento della pressione sulle risorse naturali, sono stati smentiti tanto per quanto riguarda l’arresto della crescita demografica che quello dello sviluppo economico, quest’ultimo spinto oltre ogni limite dall’applicazione del progresso tecnologico e dalla disponibilità di energia. Così, raggiunto il primo miliardo intorno al 1800, dal 1960 al 2015 la popolazione mondiale è passata da 3 a 7 miliardi di persone1. Ugualmente in costante crescita il PIL mondiale.

Dagli anni ’90 ad oggi, ad esempio, l’incremento è stato sempre compreso tra il 2 ed il 5%, escluso il periodo a cavallo tra 2008 e 2009, in piena crisi economica. Nel 2004, la stessa Donella Meadows e altri autori, in Limits to Growth: The 30-Year Update, hanno meglio individuato nell’insostenibilità dell’impatto ambientale il vero limite alla sopravvivenza della specie umana e non solo allo sviluppo economico.

All’incremento demografico e alla crescita del PIL corrisponde, a livello globale, il manifestarsi di emergenze ambientali devastanti; su tutte il cambiamento climatico. Per completare il quadro, va messo in luce come, nel rapporto tra diversi Continenti, oltre che tra gruppi di individui o Stati, la crescita demografica e del PIL sia stata accompagnata dall’incremento della sperequazione nell’accesso alle risorse naturali oltre che nella distribuzione della ricchezza economica. I dati pubblicati da Oxfam nel gennaio 2015 affermano che, nel 2014, “l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale, lasciando appena il 52% da spartire tra il restante 99% di individui sul pianeta”.

Di questo restante 52%, solo il 5,5% è riservato ad una quota pari all’80% della popolazione mondiale, mentre il resto è distribuito tra il 20% più ricco.

Tornando all’insostenibilità dell’impatto ambientale, dall’era pre-industriale, l’aumento della concentrazione di anidride carbonica è pari al 40%; cause primarie, le emissioni legate all’uso dei combustibili fossili e quelle dovute al cambio di uso del suolo.

Più del 75% delle 10 gigatonnellate di incremento annuo delle emissioni di gas serra tra il 2000 e il 2010 è stato dovuto alla fornitura di energia (47%) e all’industria (30%).

Si ricava da questi dati che, da un lato, il modello produttivo si alimenta distruggendo l’ambiente, dall’altro si acuisce sempre più la divaricazione tra chi di ciò beneficia  economicamente e chi ne subisce gli effetti devastanti in termini di rischio ambientale e sanitario legato all’inquinamento. In più, l’ambiente non è sacrificato in nome di un modello in grado di produrre benessere diffuso e distribuito bensì artefice di grandi diseguaglianze.

Per l’Italia, i risultati dello Studio SENTIERI-Studio Epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento (2011), nel periodo 1995-2002, per i 44 Siti di interesse nazionale (SIN) per le bonifiche oggetto di studio, affermano che riguardo allo stato socioeconomico come determinante di salute e malattia, il 60% della popolazione dei SIN appartiene alle fasce più svantaggiate. Confermando così la sperequazione nella distribuzione per classe sociale dei rischi ambientali connessi al modello produttivo.

Rispetto all’esposizione sistematica di determinate popolazioni ai rischi ambientali e sanitari connessi all’impatto del modello produttivo sui territori, le mobilitazioni campane contro lo smaltimento legale e illegale di rifiuti urbani e industriali, hanno elaborato un nuovo linguaggio dell’insostenibilità sistematizzato nella categoria ecologico-politica del “biocidio”.

Il modello energetico implica, in quanto ancora incentrato sulla produzione industriale di energia e sullo sviluppo di attività energivore, la concentrazione dei profitti connessi al consumo di risorse, contribuendo ad ingiustizia e diseguaglianze sociali, oltre che al radicalizzarsi dei conflitti legati alla corsa all’accaparramento. Si pone in antitesi rispetto all’implementazione della produzione diffusa, oggi tecnologicamente possibile, in grado di garantire, per una buona quota dei consumi, la possibilità di unire la figura del consumatore e del produttore in un’ottica non di mercato, più adatta ad una risorsa essenziale quale l’energia.

Infine, non solo alimenta un modello estrattivo che aggancia la crescita del PIL al depauperamento dell’ambiente ma è certamente un fattore generativo di rischio sanitario e ambientale, su scala locale e globale. In buona sostanza, l’attuale sistema energetico racchiude in sé gli ostacoli alla giustizia ambientale, sociale ed economica più generalmente riconducibili all’attuale modello di sviluppo … continua a leggere qui