Trivellazioni artiche e fracking, Obama vuole l’indipendenza energetica

[di Giampaolo Tarantino su linkiesta.it] La Royal Dutch Shell potrà trivellare nelle gelide acque tra Siberia e Alaska, tra le preoccupazioni ambientaliste

 

L’amministrazione Obama dà un dispiacere agli ambientalisti. il Dipartimento dell’Interno degli Stati Uniti ha concesso l’approvazione condizionata allo sfruttamento delle risorse petrolifere dell’Oceano Artico da parte di Royal Dutch Shell. La multinazionale anglo-olandese ha adesso potrà riprendere le operazioni di trivellazione dalla prossima estate.

 

Il Wall Street Journal spiega che la decisione del governo Usa riguarda una sola compagnia ma rappresenta una vittoria per l’intera industria petrolifera, che recentemente ha dovuto fare i conti con norme sempre più stringenti in materia di fracking e di trasporto del combustibile su rotaia. Nonostante l’approvazione, Shell dovrà sottostare a regole studiate proprio per queste trivellazioni al largo delle coste dell’Alaska. Tuttavia, fa notare il quotidiano economico Usa, potrebbe presto portare all’avvio di operazioni esplorative da parte di altre compagnie nella stessa regione.

 

La trivellazione nelle acque ghiacciate del mare dei Ciukci tra Alaska e Siberia preoccupa molto le associazioni ambientaliste. Secondo loro, quella dove opererà Shell è una delle zone più pericolose del mondo per le trivellazioni. L’area è molto isolata e, in caso di incidenti o guasti, la più vicina struttura capace di intervenire si trova a più di 1.500 chilometri di distanza.

La compagnia anglo-olandese aveva progettato lo sfruttamento delle risorse artiche fin dal 2007, ma nel 2012 il maltempo e una serie di malfunzionamenti hanno portato allo stop di un primo tentativo di trivellazione. Proprio questi problemi avevano scatenato le proteste degli ambientalisti e spinto la Casa Bianca a vincolare le future attività a regole più stringenti.

 

Come fa notare Siobhan O’Grady su Foreign Policy, l’interesse degli Stati Uniti nell’Artico non riguarda solo lo sfruttamento degli idrocarburi. Lo scioglimento della calotta polare potrebbe agevolare le operazioni per le esplorazioni minerarie. Il rapporto tra Obama e le associazioni ambientaliste è contraddistinto da alti e bassi. «Come presidente, ha fatto passi da gigante in materia di cambiamento climatico, ma ha anche agevolato le trivellazioni offshore», scrive Foreign Policy.

 

Il via libera a Shell fa parte della strategia energetica di Obama. Il presidente si è adoperato per incentivare le energie rinnovabili ma ha anche spinto per il fracking. A febbraio, Obama aveva messo il veto alla costruzione dell’oleodotto Keystone XL, un tubo da 8 miliardi dollari per il trasporto di sabbie bituminose dal Canada alle raffinerie americane, che era stato precedentemente autorizzato dal Congresso. Ma l’amministrazione democratica ha invece approvato un altro progetto di perforazione offshore sulla costa orientale degli Stati Uniti.

 

Tutte mosse coerenti con l’obiettivo strategico del presidente. Traghettare il suo Paese verso l’indipendenza energetica. Strategia che, di fatto, ha messo gli Usa in rotta di collisione con l’Arabia Saudita, storico alleato e fornitore di petrolio, che lo scorso novembre ha condotto l’Opec a non ridurre la produzione nonostante il calo prolungato del livello dei prezzi del barile. Decisione che ha portato alla guerra dei prezzi contro i piccoli produttori americani, nel tentativo di mettere fuori mercato lo shale oil nordamericano così da rinsaldare il legame petrolifero con Washington.

 

Gli americani, pur senza mettere a repentaglio l’ambiente, vogliono incentivare le estrazioni di idrocarburi nei maxigiacimenti offshore. Si tratta di operazioni molto complesse dal punto di vista tecnico e che necessitano di grandi investimenti. Tanto per fare un esempio, secondo il Wall Street Journal in un anno Shell investirà un miliardo di dollari per operare nel gelo del mare dei Ciukci.

 

Quello che sta accadendo alle major del petrolio è spiegato benissimo dalla fusione della stessa Shell con British Gas, società leader nell’esplorazione dei giacimenti più “difficili” in acque profonde. Si tratta della più grande fusione del decennio nel settore idrocarburi, che però è stata perfezionata dopo 8 mesi di crollo del prezzo del greggio. I progetti di Bg aiuteranno Shell a espandersi nello sfruttamento dei giacimenti in acque profonde. La pesante riduzione del prezzo del barile ha evidenziato le debolezze di chi incentra il business soprattutto su lunghi progetti di esplorazione e produzione.

 

L’esigenza di puntare sulle operazioni di esplorazione ed estrazione resta stringente anche ora che il prezzo del greggio ha rialzato la testa. All’inizio della settimana il barile è arrivato attorno ai 70 dollari, ma è un trend che durerà poco e che si può spiegare con la decisione dei sauditi di aumentare il prezzo del petrolio da vendere in Asia (dove ci sono i paesi con ritmi di crescita più elevati e dove gli idrocarburi non convenzionali coprono una quota di mercato ancora molto limitata). Secondo gli analisti della Reuters, nella seconda metà del 2015 il petrolio tornerà a scendere per effetto del probabile rafforzamento del dollaro e del perfezionamento dell’accordo sul nucleare iraniano.

 

Pubblicato il 14 maggio 2015 su linkiesta.it