TTIP e CETA: il mercato globale contro il clima

1[tratto dal dossier l’Italia vista da Parigi] Nel corso degli anni, i trattati internazionali di libero scambio hanno dimostrato l’esistenza di una sorta di “doppia morale” che distingue diritto commerciale e diritto dell’ambiente, determinando le condizioni di una netta supremazia degli impegni presi nell’ambito del primo rispetto alle istanze di tutela ambientale. In materia di commercio e d’investimento i trattati prevedono regole obbligatorie e meccanismi sanzionatori invece assenti negli accordi su clima, esclusivamente fondati su basi volontarie. Ciò avviene anche per due trattati di libero scambio che coinvolgono l’Unione Europea, discussi segretamente e al riparo dagli occhi dell’opinione pubblica negli ultimi anni. Il primo è il Transatlantic Trade Investment Partnership (TTIP) un accordo bilaterale tra Europa e Stati Uniti le cui negoziazioni sono iniziate nel 2013, accordo attualmente stoppato, anche per le proteste della società civile.

Il secondo è il Comprehensive Economic Trade Agreement (CETA), un accordo bilaterale tra Europa e Canada, le cui negoziazioni sono cominciate nel 2009 e che è stato firmato tra il Canada e la Commissione Europea il 30 ottobre 2016. Entrambi i trattati hanno lo scopo dichiarato di modificare regolamentazioni e standard, le cosiddette barriere non tariffarie, e abbattere dazi e dogane tra Europa e nord America, rendendo più fluido e integrato il commercio tra le due sponde dell’Atlantico. Per entrambi i trattati, in accordo con il Trattato di Lisbona, il Parlamento Europeo ha votato il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione Europea, rinunciando al diritto di accesso e di intervento sul testo delle negoziazioni per i singoli Paesi.

Le negoziazioni si sono svolte nel riserbo assoluto. Una volta completato il testo negoziale, il Parlamento Europeo ha diritto di voto finale ma senza poter trattare su nulla, sul modello prendi o lascia. Entrambi i trattati contengono clausole di risoluzione di conflitti tra Stato e investitori basate sul ricorso a tribunali privati. Nel TTIP è previsto il meccanismo ISDS (quello invocato dalle imprese per fare causa agli Stati negli esempi sopra citati). Nel CETA l’ISDS è stato modificato in un Sistema giuridico degli Investimenti (Investor Court System, ICS), dove permangono tribunali costituito da giudici privati. In un appello inviato ai decisori dell’Unione Europea, oltre 100 Professori di Diritto di tutta l’Europa hanno chiesto che il meccanismo di disputa tra Stato e investitori sia escluso dal TTIP e dal CETA (1).

Secondo i giuristi, le misure di protezione degli investimenti e le clausole ISDS/ICS stabiliscono inaccettabili privilegi per gli investitori stranieri minacciando regolamenti di pubblico interesse; esse sono inoltre sistematicamente sbilanciate in favore degli investitori e mancano di tutele per lo Stato di diritto. Sulla base del CETA, a causa delle regole di protezione degli investitori, ogni impresa multinazionale con sede in Canada potrebbe rifarsi sull’Europa, portando così alla moltiplicazione delle denunce da parte degli investitori nei confronti dell’Unione Europea (2).

Il TTIP e il CETA hanno stimolato una larga opposizione sociale in Europa: tramite la STOP TTIP European Initiative sono state raccolte in un anno oltre 3,5 milioni di firme per chiedere alla Commissione Europea di non ratificare questi accordi e la fissazione di un’audizione presso il Parlamento Europeo, audizione che è stata negata (3).

In Canada, nel frattempo, un membro del Consiglio privato della regina del Canada e due membri del Committe on Monetary and Economic Reform hanno fatto causa al primo ministro Justin Trudeau presso la Corte Federale Canadese in quanto non ritengono di competenza del governo la sottoscrizione di trattati di libero scambio che dovrebbero invece essere discussi in parlamento (4).

Nei vari Stati europei forti campagne di opposizione sono state promosse dalla società civile. Contro il CETA in Germania circa 200.000 cittadini e il gruppo parlamentare del partito Die Linke hanno fatto ricorso presso la Corte costituzionale.

Dal canto suo la Vallonia, piccola regione francofona del Belgio, ha tentato fino all’ultimo di ostacolare la firma, riuscendo a ritardarla dal 18 al 30 ottobre 2016 ed ottenendo di accostare all’accordo una dichiarazione interpretativa.

Le regioni della Vallonia hanno imposto che i tribunali arbitrali siano trasformati in corte pubblica internazionale (5) ed hanno ottenuto che la Corte europea di Giustizia si pronunci sulla compatibilità del CETA con i principi costituzionali europei. Grazie alla forte pressione dei movimenti sociali e delle campagne contro TTIP e CETA, inoltre, alcuni governi e la Commissione Europea sono stati indotti a definire il trattato un accordo “misto”: per l’entrata in vigore sarà necessaria la ratifica da parte dei 28 parlamenti nazionali.

Attac France e AITEC hanno esaminato in dettaglio il testo del trattato CETA e lo studio d’impatto pubblicato dalla Commissione Europea nel giugno 2011 fornendo una vasta ed argomentata lista di motivi secondo i quali questo trattato non è compatibile con gli obiettivi climatici assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi (6). Riassumiamo di seguito i principali punti di incompatibilità tra i trattati di libero scambio e l’accordo di Parigi.

TRATTATI COMMERCIALI E RIDUZIONE DELLE EMISSIONI

Perchè il CETA non è compatibile con gli obiettivi climatici

1. Aumento di emissione di gas ad effetto serra: lo studio di “sostenibilità” svolto dalla Commissione Europea mostra come in Canada le emissioni di gas ad effetto serra aumenterebbero a seguito dello sviluppo dei sistemi di trasporto, l’estrazione di idrocarburi e prodotti minerari e dell’industria.

2. Nessuna menzione all’Accordo di Parigi: nel CETA non si fa nessun riferimento al cambiamento climatico né agli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra o agli obiettivi di de carbonizzazione dell’economia. Anche se il capitolo 8 del CETA relativo all’investimento è stato modificato all’inizio del 2016 dopo la firma dell’Accordo di Parigi, non si fa nessuna menzione agli impegni presi da Canada e UE per contrastare il cambiamento climatico.

3. L’ambiente è considerato valore subordinato alla liberalizzazione del commercio e le regole climatiche e ambientali sono considerate restrizioni al commercio: nessun accordo sulla tutela ambientale è menzionato nel testo. Nell’articolo 24.9 gli Stati si impegnano a “facilitare e promuovere il commercio e l’investimento di mercanzie e servizi ambientali, includendo la riduzione degli ostacoli non tariffari”. La liberalizzazione è dunque presentata come la maniera migliore per proteggere l’ambiente.

4. Gli investitori sono protetti contro le misure derivanti da politiche di contrasto al cambiamento climatico: il capitolo 8 destinato agli investimenti definisce le regole di protezione degli investimenti che riguardano “le concessioni […] per l’esplorazione, la valorizzazione, l’estrazione o lo sfruttamento delle risorse naturali” (art. 8.1). Eventuali politiche climatiche che potrebbero intaccare gli interessi degli investitori – ad esempio misure che mirino a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, ad aumentare l’efficacia energetica o ridurre il consumo di energia – potrebbero essere oggetto di citazione in giudizio e attivare il meccanismo di protezione degli investitori. Il trattato non definisce alcuna esclusione specifica delle politiche contro il cambiamento climatico nel meccanismo di risoluzione dei contenziosi (Investitore-Stato o Stato-Stato). Il meccanismo di risoluzione dei contenziosi è affidato ad un tribunale privato chiamato Investment Court System (ICS).

5. I capitoli relativi all’ambiente e allo sviluppo sostenibile non sono impugnabili presso un tribunale: nel capitolo 22 su Commercio e Sviluppo Sostenibile e nel capitolo 24 Commercio ed ambiente non è incluso alcun tipo di obbligo di protezione dell’ambiente e di contrasto al cambiamento climatico. Nessuna clausola protegge in maniera esplicita e giuridicamente obbligatoria il diritto degli Stati e delle collettività pubbliche a implementare misure in tal senso.

6. Viene promossa la liberalizzazione del settore dell’energia: i diritti di dogana, già bassi, vengono soppressi facilitando l’importazione di petrolio, gas e carbone proveniente dall’altra parte dell’Atlantico. L’accordo impedisce di ristabilire diritti di dogana. Tutte le misure di controllo di importazioni ed esportazioni di energia sono fortemente impedite ai firmatari del CETA.

7. Le energie fossili sono preferite ed è data loro la precedenza rispetto alle energie rinnovabili: il capitolo 12 limita l’autorità sovrana degli Stati nel rilascio di autorizzazioni e licenze d’attività o di sfruttamento a imprese private. Questo vale per tutti i settori ma al settore estrattivo (miniere ed energetico) e a quello delle grandi infrastrutture è assegnata importanza particolare. Il testo rafforza gli obblighi degli stati nei confronti dei soggetti economici privati, fornendo numerosi fondamenti, alcun dei qualii nuovi, alla proposizione di ricorsi Investitore-Stato. Gli Stati dovranno dunque limitarsi a regolamenti “neutri sul piano tecnologico” (art. 21.3) e quindi di fatto non possono esercitare una preferenza per le energie rinnovabili e le tecnologie verdi.

Estratto del capitolo III del dossier l’Italia vista da Parigi, a cura di A Sud e del CDCA

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NOTE

(1) Per approfondire: stop-ttip.org

(2) AITEC, Attac France, Corporate Europe Observatory, e circa altre venti organizzazioni della società civile, Svendere la democrazia, settembre 2016.

(3) Per approfondire: stop-ttip.org

(4) Per approfondire: www.comer.org

(5) Testo dell’accordo intra-belga sul CETA www.rtbf.be

(6) Per lo studio completo si veda: france.attac.org