Ue, fondi pubblici per l’industria bellica

image[di Michele Sasso su espresso.repubblica.it] Al parlamento di Bruxelles è in discussione un programma di sussidi da 3 miliardi e 500 milioni di euro per la ricerca nel settore della difesa. Per contrastarlo 14 campagne nazionali chiedono invece di promuovere la pace. Raccogliendo in pochi giorni oltre 57 mila firme.

La ricerca per costruire tank, elicotteri, radar e tecnologia militare entra nel parlamento europeo: 25 milioni di euro per bilancio del 2017 e poi per i prossimi tre anni altri 80 milioni di euro.

Dietro le divise il doppiopetto della potentissima industria delle armi per un programma di ricerca ambizioso da 3 miliardi e 500 milioni di euro chiamatoPreparatory action on defence research che la Commissione europea intende includere nelle linee di finanziamento in discussione in autunno e che toccherebbe il periodo 2021-2027.

Così l’Unione è solo a pochi passi di distanza da iniziare a fornire sussidi per la ricerca legata agli armamenti. Utilizzando denaro pubblico per sviluppare tecnologia militare.

Per contrastare questa decisione di denaro pubblico per business privati ed eticamente discutibili sono state lanciate 14 campagne nazionali e 3 organismi internazionali che compongono la rete Enaat, European network against arms trade.

In pochi giorni oltre 57 mila firme sulla piattaforma Wemove.eu hanno sottoscritto questo appello: «Presto i membri del Parlamento europeo voteranno per dire sì o no per dare all’industria delle armi fondi Ue. Anche se presentano questo come “difesa” l’obiettivo di queste sovvenzioni è quello di preservare la competitività dell’industria delle armi e la sua capacità di esportare all’estero, anche in paesi che contribuiscono all’instabilità e prendendo parte a conflitti mortali, come l’Arabia Arabia».

È proprio il cortocircuito delle armi made in Italy vendute a Ryad ed usate per bombardare lo Yemen (con l’effetto collaterale di 26 mila civili morti) raccontato da “l’Espresso” lo scorso agosto .

Dietro alla decisione storica, è la prima volta che si aprono i cordoni della borsa per un capitolo di spesa espressamente vietato dai trattati (la difesa e sicurezza sono affidate agli stati membri per evitare implicazioni politiche) c’è un lavoro incessante di lobby.

A spiegarlo è Francesco Vignarca, coordinatore italiano della rete disarmo, una delle onlus che hanno aderito alla campagna continentale: «Dopo diversi anni di azione persistente condotta in maniera discreta e riservata, in particolare da gruppi di lobby legati all’Asd (AeroSpace and defence industries association of Europe), e con il supporto recente di alcuni Stati membri e parlamentari europei, Bruxelles ha “esternalizzato” le sue scelte. La Preparatory action è stata scritta da un gruppo di personalità composto per oltre la metà di rappresentanti legati all’industria militare. In pratica l’industria degli armamenti sta consigliando la Ue di iniziare a fornire fondi e sussidi a se stessa. È un chiaro conflitto di interessi».

LE PERSONALITÀ IN CAMPO
L’Associazione europea delle industrie per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza rappresenta questo settore in tutte le questioni d’interesse comune, con l’obiettivo di promuovere e sostenere lo sviluppo competitivo.

Fanno parte 26 associazioni di categoria e 14 società, con una rappresentanza di oltre tremila aziende che occupano circa 800 mila dipendenti con un fatturato di circa 200 miliardi di euro.

Forti di questi numeri ecco come il gruppo di sedici personalità ha messo intorno allo stesso tavolo politici, accademici e amministratori delegati in veste di consulenti.

Nove di questi sono rappresentanti del settore (da Indra, Mbda, Saab, Tno, Airbus, Bae Systems, Frauenhofer e Liebherr-Aerospace Lindenberg) con il colosso italiano Finmeccanica-Leonardo e il suo amministratore delegato Mauro Moretti insieme a Federica Mogherini, ex ministro degli esteri italiano ed ora Alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza e capo dell’Agenzia europea per la difesa. La società civile non è rappresentata nel gruppo.

«L’industria militare e di sicurezza ha trovato la sua nicchia nella parte “sicurezza” di questi programmi, con centinaia di milioni di euro di finanziamento annuale. La principale rivendicazione è che occorre rafforzare la posizione militare e che il supporto per l’industria della difesa creerebbe molti posti di lavoro», spiega il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel.

Così nel 2013 è partita la prima ricerca e dopo due anni il gruppo di personalità si è ritrovato con un obiettivo molto chiaro: «La protezione nel futuro a lungo termine della nostra industria della difesa è nel nostro interesse. Sia a livello nazionale che collettivamente. Per questo la Commissione può svolgere un importante ruolo di sostegno per rafforzare le industrie e aumentare la capacità di ricerca nazionale».

Il gruppo di personalità ha elaborato un rapporto dai toni allarmanti sullo stretto legame che unisce il comparto con la minaccia della difesa comune, sottolineando che i finanziamenti sono «necessari in vista della possibile decisione di rafforzare la postura militare complessiva dell’Europa e creare un livello di autonomia strategica».

Dalle parole ai fatti con una decisione dello scorso 14 settembre è stato varato il Corpo europeo di guardia costiera e di frontiera che dovrà istituire «un parco di attrezzature tecniche da impiegare nelle operazioni congiunte, negli interventi rapidi alle frontiere e nell’ambito di squadre di sostegno per la gestione della migrazione, nonché in operazioni e interventi di rimpatrio».

«SOLO PER LA RICERCA»
Le implicazioni di queste scelte politiche e i suoi effetti immediati le spiega a “l’Espresso” Daniele Viotti, europarlamentare del Pd e membro della commissione bilancio: «La commissione ha dato il suo consenso a un’azione preparatoria da 25 milioni di euro con la possibilità di estendere il progetto fino al 2019. In teoria si può arrivare alla cifra menzionata ma vorrei sottolineare che ogni anno sarà necessaria una conferma da parte del parlamento che, ovviamente, vigilerà affinché il denaro stanziato non sia usato per la produzione bellica ma solo per progetti di ricerca di base».

L’idea che ha spinto la commissione ad «aprire» a questi fondi è il cosiddetto “duplice uso”: molte tecnologie oggi di uso comune, come i tessuti moderni e la rete internet sono nati come progetti per le forze armate, poi convertiti per l’uso civile.

C’è poi la grande partita della difesa europea unitaria e integrata, per unire gli sforzi e gli obiettivi, mettendo da parte gli egoismi e gli interessi nazionali.

«L’alternativa alla mancanza di una difesa comune è avere stati che fanno una propria politica estera, le proprie guerre e non condividono i dati d’intelligence», continua Viotti: «Ma non era il sogno di tutti noi avere un’Europa capace di avere una sola voce in un mondo sempre più multipolare? Nel bilancio che abbiamo approvato gli stanziamenti per lo sviluppo, l’aiuto ai paesi più poveri e il sostegno alle ong superano i nove miliardi di euro a fronte di 25 milioni per la ricerca militare. Con un eventuale aumento delle spese europee per la difesa avremmo una corrispettiva riduzione delle spese nazionali. Ma voglio assicurare che non ci sarà mai alcun taglio per la ricerca, su questo l’ampia maggioranza del parlamento  (dalla sinistra fino al partito popolare) è assolutamente compatta».

Pubblicato il 03/10/2016